Alfredo Ormando è un nome che riecheggia dentro il movimento Lgbt+, soprattutto tra militanti di una certa età. Coloro che, all’epoca erano già persone navigate, dentro la comunità. E chi invece, come me, muoveva i primi passi nell’universo arcobaleno. Le generazioni più giovani, forse, non lo conoscono e il suo nome rischia di divenire uno dei tanti, ucciso dall’omofobia dilagante che lo ha portato a quello che – giornalisticamente parlando – viene definito come “gesto estremo”. Il 13 gennaio 1998 infatti Ormano si recò a piazza San Pietro, in Vaticano, si cosparse di benzina e si diede fuoco. Morì dopo dieci giorni, al seguito di una lunga agonia.
Sono passati esattamente ventiquattro anni da quel giorno terribile. Il movente di un gesto così definitivo – e il sacrificio che ne ha fatto da strascico – Alfredo Ormando lo ha spiegato in alcune lettere che ha scritto prima di compiere il suo atto dimostrativo: protestare contro la chiesa cattolica e il suo atteggiamento contro l’omosessualità. Così leggiamo, oggi, sulla pagina Wikipedia a lui dedicata. Così si disse, all’epoca, prima che i media derubricassero il tutto a mero gesto di una persona con problemi psichici.
Come scritto altrove, qui su Gaypost.it (in cui riportiamo la sua storia), Alfredo Ormando era originario di San Cataldo, un piccolo centro della provincia di Caltanissetta, Ormando nacque e crebbe in una famiglia di contadini analfabeti. Il suo contesto sociale non era stato per nulla benevolo nei confronti della sua omosessualità. Eppure, nonostante le condizioni sfavorevoli, aveva cercato di emanciparsi da quello che appariva un destino segnato. Al momento del suicidio, infatti, l’autore era iscritto all’Università di Palermo e aveva cominciato la sua carriera letteraria. Tuttavia, la vita è stata più crudele e il poeta non è riuscito a scansare i suoi colpi più crudeli. Sino ad arrivare al suicidio.
Da allora ad oggi, abbiamo avuto ben tre papi: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e l’attuale pontefice, Papa Francesco. Sui primi due, c’è poco da dire. Ricordiamo le loro dichiarazioni sull’omosessualità e sulle persone Lgbt+ in genere. Dagli attacchi al World Pride a quelli ai diritti della comunità arcobaleno (Ratzinger fu particolarmente feroce contro i DiCo di bindiana memoria, ma non solo), i pontificati precedenti a quelli di Bergoglio si sono distinti per un’omofobia ecclesiastica condita da una buona dose di pietismo. La formula è quella di “attaccare il peccato, non il peccatore”. E, in nome del peccato, evitare qualsiasi progresso giuridico che potesse avallare l’omosessualità.
Leggiamo infatti nel Catechismo della chiesa cattolica: «La Tradizione ha sempre dichiarato che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati“. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati». Subito dopo, però, leggiamo: «Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. […] Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza».
Il programma culturale del papato ratzingeriano è oggi alla base dei movimenti che Massimo Prearo definisce come “neocattolici”. Gruppi politicamente bene organizzati (e legati agli ambienti di estrema destra) che hanno i loro rappresentanti in Parlamento. Lo stesso non si può dire della nostra comunità e del nostro movimento, realtà per lo più divise e in guerra permanente. E di fronte a questo stato di cose, dovremmo interrogarci non solo sulla strada che stiamo percorrendo, ma anche sugli obiettivi futuri da realizzare. Il primo tra tutti, quello di organizzare una forza politica di pressione che sia davvero tale. Perché al momento, la bilancia pende da una parte soltanto. E non è dalla parte dei “buoni”, per intenderci.
La “parentesi” bergogliana si configura, invece, come un inanellamento di specchietti per allodole. Secondo la narrazione vigente, Francesco dovrebbe essere un pontefice Lgbt-friendly. Cosa che in realtà non è. Non ha mai fatto alcuna apertura alle coppie dello stesso sesso e non si è espresso in modo difforme, rispetto a chi lo ha preceduto. Quando meno nella sostanza. «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?» furono parole molto celebri, lette però a metà. Il seguito infatti è il seguente: «Il catechismo della Chiesa cattolica dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte. Il problema non è avere queste tendenze, sono fratelli, il problema è fare lobby». Tradotto: il problema non è il peccatore, che va accolto secondo quanto dice il catechismo. Il problema è il riconoscimento politico, basato sul “peccato”. Cambia solo la forma. E l’accento, che non è più tedesco ma argentino.
A ventiquattro anni da quella protesta, tradotta poi in morte di Alfredo Ormando, il nostro movimento è ancora largamente inadeguato a raccogliere la sfida che ci troveremo ad affrontare negli anni a venire. Anni in cui un governo a maggioranza di ultradestra non è solo uno spauracchio: è una prospettiva. E i leader di quel possibile governo sono gli stessi che omaggiano Orban e fanno accordi con la Polonia. Quella delle “zone libere” dalla popolazione Lgbt+. Dall’altra parte, invece – e parlo del mondo ultracattolico – troviamo un esercito ben organizzato e bene armato. Un esercito pericoloso.
Per capire i termini della questione, riporto uno stralcio di quanto scritto sulla sua pagina Facebook da Jennifer Guerra: «Prepariamoci, perché l’offensiva contro il politicamente corretto e la cancel culture sta diventando la nuova “ideologia gender” e di mezzo non ci sono solo intellettuali attempati che non vogliono rassegnarsi alla loro irrilevanza, ma forze sempre più grandi e organizzate». L’attacco, insomma, non è fatto solo alla comunità Lgbt+, ma si estende ai movimenti di liberazione. «L’editoriale dell’ultimo numero di Tradition Family and Property» continua Guerra, «una delle organizzazioni conservatrici e tradizionaliste più ricche e potenti al mondo, è tutta un’invettiva contro Black Lives Matter, la cultura Woke e la cancel culture». Il resto potete leggerlo sul suo profilo.
La prospettiva, insomma, non è felice. E la chiesa a cui il poeta siciliano si rivolgeva non è cambiata di molto, rispetto ad allora. E anche il contesto sociale di contorno non sembra essere migliorato. Anzi. Se vogliamo dar senso a questo sacrificio, bisogna ripartire da qui. Riconoscendo i nostri limiti e dando un nome preciso all’avversario, pronto a trasformarsi in nemico. Riconoscendo nell’alleanza tra destre (estreme e non) e potere religioso il pericolo principale per la qualità delle nostre vite. E non solo per non rendere inutile la morte di Ormando. Ma per scongiurare che la nostra libertà venga meno, passo dopo passo.
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