Quando se ne parla con gli amici si ha sempre la sensazione di trovarsi di fronte a una verità granitica: il risultato di un ragionamento inoppugnabile, semplice e antico quanto il mondo. Ma quando si toccano argomenti legati alla nascita, niente è così semplice e “naturale” come può sembrare: a poco servono ragionamenti e slogan di fronte alla complessità magmatica del reale, della scelta di chi “partorisce per altri”. L’argomento, poi, è ancora più delicato perché ha al centro la donna, il suo utero, due elementi di non poco peso nella nostra cultura maschilista.
Di fronte alla necessità di capire e alla sterilità delle astrazioni, che cosa si può fare se non immergersi nella realtà, nei fatti, confrontarsi vis à vis con quelle «donne che partoriscono per altri»? È proprio quello che ha fatto Serena Marchi nel suo secondo libro, Mio tuo suo loro. Donne che partoriscono per altri (Fandango editore, 2017, pp. 209), da sei giorni in libreria.
Le legislazioni in giro per il mondo
«La complessità non si risolve subito, non ha un’unica soluzione» scrive l’autrice nella prefazione. Ma leggendo Mio tuo suo loro è possibile «farsi un’idea» della cosiddetta «gestazione per altri». Perché Serena Marchi si è messa in viaggio («ho percorso 33.613 chilometri, per incontrarle. Tutte. Nessuna intervista via Skype») alla ricerca di queste donne e ha parlato con loro, le ha osservate, ha respirato la loro stessa aria: ha messo insieme per il lettore una serie di testimonianze palpitanti dal mondo (Italia, Regno Unito, Ucraina, Canada, Stati Uniti d’America). Per ogni paese c’è una introduzione di Elena Falletti, studiosa e docente di diritto comparato, dedicata alla legislazione vigente in materia di surrogacy.
Come evidenzia giustamente Falletti, «la condizione delle donne che svolgono il ruolo di surrogata è molto diverso a seconda dello Stato in cui si trovano, rispecchiando la condizione giuridica e sociale femminile in quella specifica realtà». Per le donne americane la gestazione per altri può essere considerata un «gesto di libertà, generosità, autodeterminazione». Per quelle ucraine «un modo di fornire un servizio dietro retribuzione per migliorare le condizioni economiche». Per le indiane «un modo di contrapporsi alla pianificazione familiare forzata». Invece le thailandesi ancora sono vittime del «paternalismo maschile» perché possono diventare portatrici solo con il consenso del marito.
Gestazione per altri e omogenitorialità
La parte conclusiva del volume, invece, si focalizza sulla surrogacy in relazione alla omogenitorialità con una riflessione dello psichiatra Ettore Straticò relativa ai presunti traumi dei figli delle coppie omogenitoriali, per quanto «alla surrogazione di maternità ricorrono per la maggioranza donne, in coppia o meno, che non possono partorire per mancanza dell’utero, per problemi di cuore, per malattie genetiche, per un cancro disabilitante», come puntualizza giustamente l’autrice in una nota. Spesso, invece, si interpreta il fenomeno della surrogacy in maniera stereotipata, cioè come un atto egoistico, l’ennesima violenza perpetrata ai danni della donna dalla figura maschile, in questo caso incarnata da una coppia di uomini gay che desidera formare una famiglia. In realtà, quello sulla gestazione per altri è un dialogo principalmente tra donne, una questione privatamente femminile, incentrata sulla libertà stessa della donna.
“Io decido per me e per il mio corpo”
Pensiamo al fitto, dolce, intimo dialogo che Regina intessé un giorno con sua figlia Novella, nella loro casa al confine tra Abruzzo e Lazio. A causa di un primo parto andato male, Novella non poteva più avere figli e Regina si era proposta di aiutarla. È interessante notare come in questo discorso tra madre e figlia, l’uomo di casa non abbia alcun margine di intervento: «Entra in casa suo marito, sporco di colore. Si toglie il cappello e va in bagno a lavarsi le mani. “Lui era d’accordo con noi, ci supportava e ci sosteneva. E anche non avesse voluto, anche se fosse stato contrario non avrebbe avuto voce in capitolo. Perché io decido per me, per il mio corpo, e sa che mi sarei offerta a Novella anche senza il suo consenso”». I loro sono veri e propri “discorsi da donne”.
Regina e Novella
Regina con grande amore e naturalezza si offriva di portare avanti i nove mesi di gravidanza facendosi impiantare l’ovulo fecondato di sua figlia. Erano gli anni Novanta: utero in prestito tra familiari, a titolo gratuito, il secondo caso al mondo dopo quello di una donna americana: «“Continuavano a chiedermi ‘Lei, Regina, sarebbe la mamma o la nonna?’ Che domanda scema, io sarei stata la nonna e la madre era e sarebbe stata sempre e solo mia figlia Novella (…) Cosa non fa una madre per la propria figlia? E poi tutte le nonne si occupano dei nipoti (…) Io avrei tenuto mio nipote solo un po’ più piccolo rispetto al solito».
In Italia la gestazione per altri è stata ufficialmente proibita con una legge del 19 febbraio 2004, nella quale si stabilisce che tale pratica è punita con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro.
I diversi tentativi di Regina e Novella non andarono a buon fine, ma un’altra creatura di lì a poco sarebbe entrata nella loro famiglia, in quella casa a metà strada tra Lazio e Abruzzo: Emanuela, figlia del fratello di Regina e orfana di madre, morta durante il parto. Senza madre e con un padre in giro per il mondo, come sarebbe cresciuta Emanuela? Emanuela oggi ha diciannove anni e chiama Regina «mamma».