La prima volta che conobbi Caterina avevo ventiquattro anni, non sapevo quasi niente della vita ed avevo smesso di essere vegetariano da qualche mese. Provavo un sacro terrore nei suoi confronti. Trans e prostituta, non ne avevo mai conosciuta una e avevo paura. Sì, avevo paura di lei. Non tanto perché fosse tale, sia ben inteso. Ma non sapevo come rivolgerle la parola. Non sapevo se avrei potuto offenderla in qualche modo. Da noi, in Sicilia, “buttana” può essere anche un epiteto scherzoso, quasi un complimento a volte: «Sei una buttanazza!», per dire che sei proprio fica. Ed io lo usavo sempre. E se l’avessi detto in sua presenza, ferendola in qualche modo? Così le stavo lontano. Fino a quel giorno, quando eravamo all’Open Mind.
Rompere il recinto della diffidenza
Avevamo fatto una cena sociale, non c’erano mai abbastanza soldi in associazione. In quei momenti capitava che in sede ci fosse tantissima gente e allora stavi fuori dalla porta, in primavera. Per prendere aria e perché era bello in fin dei conti: quella porta restava aperta, come un passaggio magico tra il mondo esterno e le nostre vite, che cercavamo di proteggere in quel luogo unico, speciale, dove potevamo essere persone vere. Sempre. Quindi un’amica mi chiese: «Ma come hai fatto per tutto questo tempo?». Le risposi che si fa, non è una cosa dell’altro mondo. Caterina, che evidentemente ci aveva sentiti, venne verso di noi. Domandò ad alta voce: «Cu è cca veggetarianu?» (Chi è vegetariano qui). Deglutii. Il recinto del mio silenzio nei suoi confronti, fatto di saluti cortesi e di sorrisi che mantenevano tutte le distanze di sicurezza possibili, non poteva reggere ancora per molto. Tutti mi puntarono. Perché loro, i miei amici, avevano più paura di me. Bastardi. «Vabbè, ma ora non più» ebbi la prontezza di ribattere. Lei esclamò: «Meno male». Le chiesi perché, ignaro. «Perché la minchia è carne», rispose, serafica e gutturale.
“Ti sentivi in un film di Almodovar”
Di Caterina ricorderò sempre il suo sguardo di pietra, che non era durezza di cuore. Mi divertivo a stuzzicarla, quando veniva a casa a giocare a carte per spillarci i soldi e comprarsi le sigarette. Potevo fare una cosa qualsiasi, come picchiettarle sulle spalle. Lei non diceva nulla. Aveva solo quel modo di girarsi verso di te. Uno scatto solo. Imperioso. Quel guazzabuglio di colori, che dal marrone degradava in verde attorno alla pupilla, si fissava sulla tua coscienza. Ti divertiva e intimoriva allo stesso tempo. «Caminàmu!», ti diceva, se eri fortunato. Oppure volavano urla e parolacce, se la facevi arrabbiare di brutto. Poi tutto passava e si rideva. Tornava a fumare, ti chiedeva il caffè o si metteva a fare le pulizie. Ti raccontava le sue storie, la sua vita. Ti sentivi in un film di Almodovar, quando il tuo mondo era bellissimo. E adesso, a distanza di tutto questo tempo, ti accorgi che era bello anche per merito suo. Anche se poi, il futuro, è andato come doveva andare.
Quattrocentomila sigarette
Caterina ci disse che venne mandata via da casa, quando era ancora bambina, perché era una persona trans. Che i suoi clienti erano padri di famiglia, che cercavano lei, la sera a San Berillo. Caterina aveva fumato più di quattrocentomila sigarette. Una volta, a casa abbiamo fatto il conto. Fino a tre pacchetti al giorno, se capitava. A venti al giorno, in media e per trent’anni, e la cifra è quella. Caterina ci parlava di quando era fidanzata, che il suo uomo era geloso di lei perché da giovane era bella. Di quando al mare litigava con le altre donne trans con insulti impronunciabili. Caterina al supermercato, se la incontravi, non ti salutava. Per rispetto. Perché non voleva che pensassero che conoscevi una puttana. Caterina la facevi venire a casa e c’era sempre un posto, per lei, a tavola. E non era una scelta dettata dal suo bisogno, ma un moto spontaneo. Perché a una certa, Caterina era famiglia. Come tutti gli altri e le altre.
Un’onestà rude e sincera
La vita a volte ci allontana e le incomprensioni prendono il sopravvento sulle cose davvero importanti. È questo il futuro che c’è stato, tra noi, e che ora non può cambiare. Eppure non ho mai pensato a lei come all’amica con cui avevo litigato. Ogni tanto Lucia e Roberto mi parlavano di lei, del suo caratteraccio e del suo buon cuore. Ieri Sara Crescimone, su Facebook, ha dato la notizia della sua scomparsa: «Caterina è stata un’attivista importante transgender del centro Open Mind Lgbt di Catania. Una vita difficile da vivere, la sua, allontanata dai parenti e costretta a fare un lavoro che non avrebbe voluto fare. Poche persone abbiamo conosciuto così orgogliosamente, intelligentemente e tenacemente fiere della propria identità, un’onestà cristallina a volte rude ma autentica e sincera. Sempre in prima fila nelle battaglie politiche dell’associazione e non solo ai Pride. Vogliamo ringraziare chi in questi anni le è stata vicina, anche nel calvario della sua malattia. Non sappiamo se dopo la morte ci sia un posto dove andare ma immaginiamo il suo arrivo, la sua risata ironica e la sua voce che dice “Avanti avanti, caminamu!” Ciao Catera».
Buon viaggio, Caterina
E allora sì, caminamu. Andiamo avanti. Perché non si può più tornare indietro, Caterina, e questo è stato molto sciocco da parte mia. Perché ci ho pensato, più volte, a farmi vivo e a dirti che no, alla fine non è successo niente di così grave: siamo solo stupidi e ci lasciamo ingannare dalle sirene dell’orgoglio. Ma la vita ci distrae e rimandiamo le cose, fino a quando perdiamo l’occasione. Forse unica. Ma per quello che vale, una cosa l’ho sempre pensata: io al supermercato ti avrei salutato e avremmo fatto la spesa insieme. Perché eri una persona degna di stima come chiunque altra. Perché eri una persona che si faceva voler bene. Perché eri coraggiosa e onesta. E questo non te lo potrà mai togliere nessuno. Buon viaggio.