Si è celebrata anche quest’anno la Giornata contro la violenza sulle donne. Un momento importante, non solo commemorativo per le troppe vittime di femminicidio e di abusi sessuali, fisici e psicologici, ma anche di riflessione su quelle che sono le cause che fanno nascere la violenza di genere. Abbiamo intervistato, in merito, Lucia Magionami, psicologa e autrice – insieme a Vanna Ugolini – del libro Non è colpa mia, pubblicato da Morlacchi editore.
Uomini che uccidono per scelta
«In questo libro si riportano tre interviste a tre uomini che hanno assassinato le loro compagne, con tutta la crudezza e la desolazione di un linguaggio teso alla continua ricerca di giustificazioni elusive». Tende a giustificarsi, infatti, il compagno che uccide. Un’autorappresentazione a cui fa da contraltare una narrazione ancora fuorviante, sul fenomeno. E Magionami chiarisce da subito di cosa si sta parlando: «Chi arriva a uccidere la propria compagna non è un uomo malato. Non ci troviamo, in sostanza, di fronte a psicopatologie, almeno nella quasi totalità dei casi, ma siamo davanti a persone che scelgono di usare la violenza estrema per l’affermazione del proprio potere sull’altra. La parola chiave è dunque: “scelta”».
I dati sulle violenze
«I dati numerici globali riferiti ai vari casi di violenza sulle donne in Italia sono difficilmente ottenibili», ci rivela ancora Magionami «fuorché quelli del femminicidio. Ciò innanzitutto perché non sono spesso denunciati, e molto spesso, non sono nemmeno vissuti come tali dalle vittime». Ed è questo il punto critico fondamentale. «Per la vittima risulta molto difficile riconoscere la violenza che sta subendo, quella subita in passato e quella cui va incontro. Focalizzando l’esame su quella domestica, si fatica a riconoscere il compagno come essere violento e dominatore». La donna che subisce quegli abusi, chiarisce la psicologa, non riesce a leggere se stessa nella relazione. «La relazione violenta si struttura su questa incapacità, da subito».
Come nasce la violenza sulle donne
Il meccanismo di costruzione della relazione violenta è un argomento clou del libro: «Nel quadro di sopraffazione che hanno instaurato e che vedono infrangersi, gli uomini decidono di sopprimere la compagna come unica possibilità di imporsi, una volta che la vittima abbia intrapreso un percorso di affermazione della propria autonomia». La ragione? «Credono così di ottenere un risarcimento per le ingiustizie che credono di aver subito; uccidendo tentano di placare la rabbia e il risentimento per l’indisponibilità mostrata dalla donna dopo un periodo di aggiogamento».
La dinamica della violenza
«Gli uomini che arrivano a commettere femminicidio» spiega ancora Magionami «vivono una escalation di sentimenti che chiamano indistintamente “dolore”» parola spendibile come “attenuante” «e che sarebbe meglio definire come ossessione» che, fa notare ancora l’autrice «è molto meno spendibile nella narrazione di sé». L’assassino, quindi, si rende conto di aver perso il controllo sulla donna e «matura la convinzione che la libertà da lei riconquistata non sia legittima, perché lesiva del suo “diritto” alla integrità di coppia, ritenuta sacrosanta e inviolabile. Questo è il banale meccanismo attraverso il quale l’assassino costruisce di sé l’immagine di vittima bisognosa di risarcimento». Credenziale, sottolinea Magionami, con cui «egli diviene pronto a qualsiasi azione di rivalsa».
Il femminicidio: un atto premeditato
Un altro punto che la nostra esperta vuole chiarire, in modo inequivocabile, è quello della destrutturazione della narrazione dominante, che parla spesso di “troppo amore” e di “atti sconsiderati”, frutto della follia del momento. «Il femminicidio si costruisce nel tempo, non è frutto di momenti acuti, avulsi dalla storia della relazione di coppia». Così ribadiamo un altro punto chiarissimo: «Il raptus non esiste. È solo una invenzione strategico-difensiva in sede processuale, con evidente forzatura di termini popolari, spacciati per terminologia scientifica». Un termine grossolano, insomma, che «nel migliore dei casi, riconduce all’insondabilità della psiche per poter giustificare un agito che spesso ci fa paura».
Tra violenza e “prigioni culturali”
Il percorso verso il femminicidio è lungo, lastricato di silenzio e “prigioni culturali”, si legge nel libro. Ed è importate capire quest’ultimo punto, per capire come riconoscere il pericolo quando si pone di fronte alla vittima. Si tratta di «un crescendo di agiti, di silenzi, di tensioni che possono terminare con l’uccisione della propria compagna. Segnali molto spesso ignorati dalla vittima che si trova a vivere una realtà di violenza via via normalizzata». E qui subentrano, appunto, «stereotipi e pregiudizi culturali ai quali aderiamo diffusamente. Uno per tutti quello che vuole la gelosia violenta come segno apprezzabile di particolare e profondo attaccamento amoroso. Una concezione che le nostre culture coltivano e diffondono da millenni. O l’idea del “delitto passionale”» ci spiega ancora l’autrice.
Un’ipotesi di exit strategy dalla violenza
Una via d’uscita? «L’evoluzione culturale» risponde convinta Magionami. Bisogna fare, in altri termini «formazione emozionale, relazionale, civica, in età scolare attraverso veri e propri programmi educativi. L’istituzione scolastica è un presidio irrinunciabile, innanzitutto di contrasto al decadimento etico, e in secondo luogo di elaborazione collettiva, di partecipazione». Ma la scuola, da sola, non basta. «La famiglia è l’altro nucleo in cui svolgere l’azione formativa dei comportamenti sociali. Se è vero che la violenza è appresa in famiglia, è anche vero il contrario: in essa si possono apprendere modelli e dinamiche di relazione costruttivi». E poi, ancora, la lotta agli stereotipi (soprattutto quelli di genere) e un intervento deciso da parte della politica. «La via è lunga, s’è detto, ma dev’essere percorsa, senza tentennamenti».