L’11 maggio del 2016 la Camera dei Deputati approvava definitivamente la legge sulle unioni civili. Dopo un travagliatissimo iter, il 20 maggio la cosiddetta legge Cirinnà veniva finalmente promulgata dal presidente della Repubblica. Si è però dovuto aspettare il 29 luglio, data in cui è entrato in vigore il decreto ponte per celebrare le prime unioni. Da allora, dati del Ministero alla mano, in Italia le coppie che si sono unite civilmente sono 6073. Un anno prima, nel dicembre del 2016, l’asticella si era fermata a 2433. Un incremento del 149,5 per cento in un anno.
L’Italia arcobaleno delle unioni civili
Almeno da questo punto di vista, l’Italia sembra non conoscere distinzione tra nord e sud. Il numero di unioni civili celebrate è cresciuto in proporzione all’estensione territoriale e al numero di abitanti delle regioni e delle città capoluogo.
Il primato regionale va alla Lombardia, con 1514 unioni celebrate fino al 31 dicembre 2017 (ultima rilevazione del Ministero), seguita dal Lazio (915) e dall’Emilia Romagna (645).
Fanalino di coda la Calabria: solo 24 unioni civili.
Roma si conferma la capitale: 845 unioni civili. Rispetto al dato del 2016, con 308 unioni celebrate, ha registrato un aumento del 174,3 per cento. Seguono Milano, che passa da 305 a 799, e Torino, da 153 a 378. La maglia nera è nuovamente calabrese: Crotone non ha celebrato nemmeno un’unione civile.
Il dato che salta all’occhio è solo in parte territoriale. Le città e le province con il maggior numero di unioni civili sono anche quelle in cui la comunità lgbt è più visibile e organizzata in associazioni, gruppi, ma anche luoghi di ritrovo prettamente di intrattenimento.
Una legge da completare
Se i dati sulle unioni civili confermano il trend positivo del nostro paese, non ci si può però dimenticare che la legge Cirinnà ha lasciato scoperto un altro tema importantissimo: quello della genitorialità. La stepchild adoption, o meglio, la sua assenza, resta il grande vulnus di questa legge. Stralciato per venire incontro agli alleati alfaniani, oltre che alla frangia più oltranzista dei cattolici dello stesso Pd, e affossata dal Movimento 5 Stelle, il tema della genitorialità necessita di essere ridiscussa.
Ad ammetterlo fu la stessa Monica Cirinnà. Subito dopo l’approvazione, infatti, aveva definito questo stralcio «un buco nella legge, nel Parlamento e nel mio cuore». E annunciò di voler tornare sulla questione riformando la legge sulle adozioni. Una spinta che anche l’ex guardasigilli Orlando, in occasione del primo compleanno della legge, aveva rafforzato definendo l’omogenitorialità un «obiettivo che non possiamo lasciar cadere nel vuoto».
Nelle mani dei giudici e dei sindaci
Vale la pena ricordare che al momento la questione è affidata alla discrezionalità dei giudici. I diritti dei bambini di fatto sono diffusi a macchia di leopardo sul territorio nazionale, con Roma e Bologna in pole e Napoli e Palermo fanalino di coda.
La spinta della politica, però, passa anche da quei sindaci che stanno procedendo all’iscrizione anagrafica di bambini come figli di coppie omogenitoriali senza passare dal tribunale. Se in principio è stato De Magistris nel 2015, la sindaca di Torino Chiara Appendino è andata oltre registrando per la prima volta l’atto di nascita di un bambino nato in Italia. E poi Gabicce Mare, Roma, Catania, Alfonsine, Crema e Bologna.