Ricapitolando, il ministro Fontana ha scritto al Tempo per ribadire tre dei suoi cavalli di battaglia. Che sarebbero: «la mamma si chiama mamma (e non genitore 1), che il papà si chiama papà (e non genitore 2)» in primis. Quindi che «gli ultimi e gli unici che devono avere parola su educazione, crescita e cura dei bambini sono proprio mamma e papà». E infine che «battersi per la normalità è diventato un atto eroico». Che palle.
Formule burocratiche scambiate per linguaggio quotidiano
Adesso, non sarebbe complicato far capire addirittura a un bonsai che nessuno vuole sostituire i termini “mamma” e “papà” con genitore 1 e 2. Semplicemente, in alcuni documenti ufficiali – come quelli per le scuole, gli asili nido, ecc – si è utilizzato quelle diciture per fare in modo che tutte le famiglie, da quelle eterosessuali a quelle composte da una sola figura genitoriale, passando per le famiglie arcobaleno, siano rappresentate. Cosa non nuova, per altro. Quando ero alle medie, sul mio libretto delle giustificazioni c’era scritto “firma di un genitore o di chi ne fa le veci”. È una formula burocratica, insomma. Si usa nei moduli, non nei discorsi quotidiani. Come dicevo, lo capirebbe persino un alberello in miniatura. Fontana, a quanto pare, no.
L’ultima parola ai genitori non è un valore assoluto
È, invece, meno semplice far capire che le scelte educative dei genitori non hanno valore assoluto e si devono mettere in relazione, e a volte anche scontrarsi, con tutta una serie di fattori esterni a valori e pratiche del nucleo familiare. Se un papà musulmano vorrà avere l’ultima su una questione come quella di far sposare la figlia undicenne a un quarantenne in Bangladesh, interverrà l’autorità giudiziaria. Se in casa di una fervente mamma cattolica vale il principio per cui i gay vanno offesi e suo figlio deciderà di bullizzare il compagno di banco, la scuola dovrà provvedere. L’ultima parola ai genitori va bene quando si tratta di decidere a che ora andare a letto dopo cena. Poi c’è la civiltà.
Tra stamina e la libertà di insegnamento
Dare l’ultima parola ai genitori significa dar concime a fenomeni come il no ai vaccini, per fare un solo esempio. O dare il via libera al delirio di eserciti di imbecilli che per aver visto un servizio in tv, in cui si dà credito al “metodo stamina” e cretinate simili, credono di saperne di più di un infettivologo su malattie sessualmente trasmissibili o che il cancro si cura con il bicarbonato. E invece come si gestisce una classe, cosa si insegna e cosa no, lo decidono gli insegnanti, perché c’è libertà di insegnamento. Come funziona un farmaco, lo sa bene un medico che lo somministra. Tutto il resto rientra nella vasta e imprescindibile categoria in cui lasciamo confluire le più invereconde cazzate. Ditelo a Fontana.
La normalità non esiste
Ma il podio del non senso lo conquista il discorso sulla “normalità”. Concetto che, per chi ha un minimo di nozioni di storia – e non tiro in ballo antropologia, sociologia e psicologia per non surriscaldare neuroni altrui, già messi a durissima prova – sa che “normalità” non vuol dire un bene amato cazzo. “Normalità” è il nome che diamo ad un sistema di convenzioni a cui tutti si abituano un po’ per quieto vivere, un po’ per pigrizia intellettuale. Un tempo erano normali la schiavitù o il fatto che le donne non potessero iscriversi all’università.
Normale non significa giusto
Se pensiamo che quei sistemi di esclusione sociale, sanciti da norme che creavano quelle normalità, appunto, erano funzionali a gestire i rapporti tra individui e il famigerato ordine pubblico, capiamo benissimo che “normale” non significa giusto e buono, ma conveniente. Conveniva agli schiavisti reputare normale la violazione dei diritti umani. E al sistema dominante lasciar permanere discriminazioni tra uomini e donne. Ciò che conviene, in pratica, non è necessariamente giusto. Soprattutto se conviene a certa gente. Brutta, per di più.
Un esercito di sfigati
La normalità di Fontana e del suo fan club oggettivamente sfigato – e no, non sto alludendo alle giovinezze perdute dei leader omofobi, al lessico obsoleto di qualche filosofo con evidenti problemi di accettazione, ai canti sgraziati di chi pensa di appartenere alla specie dei columbidi, dimenticando quanta merda possano produrre e con quali sgraditi effetti, ma della storia che ha fatto il suo corso è che li ha relegati tutti e tutte, spose sottomesse incluse, a finire sui libri nei panni della polvere che si depositerà su di essi – la loro normalità, dicevo, consiste nell’impedire a gay e lesbiche di vivere quanto più serenamente possibile. Che vita di merda che avete, ragazzi.
Quale Italia vogliamo far vincere?
Insomma, Fontana è niente di più che folklore. Come aver messo un tifoso da curva sud al ministero dello sport per lanciare un segnale. Pazienza se il segnale ha lo stesso spessore intellettuale di un petardo. Fa rumore, produce fumo e puzza. Poi torna nella dimensione esistenziale che più gli è consona. Il niente. Il vero problema non è lui, ma un’Italia incattivita, violenta e razzista. Un paese che non ha alcuna cultura e senso critico – e no, non è snobismo di sinistra: è descrizione del fenomeno – e che ha votato in massa, persone Lgbt incluse, certi loschi figuri. Se quel paese vince, vince anche Fontana. Se cambiamo registro culturale, le parole del ministro avranno lo stesso effetto di una flatulenza nella vastità del cosmo. Ciascuno faccia la sua scelta.