Sale a undici il numero dei suicidi avvenuti in carcere da inizio anno. L’ultima vittima è una trans di trentatré anni: si è tolta la vita lo scorso martedì nel carcere maschile di Udine. Non era la prima volta che veniva rinchiusa lì, nella Casa Circondariale di via Spalato: era rientrata da poche ore quando è stata trovata ormai priva di vita nel bagno della sua cella. Forse è in questo ritorno dietro alle sbarre che si possono cercare i motivi del suo gesto.
58 transessuali nelle carceri italiane
Secondo una relazione del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute (scaricabile qui), le persone transessuali attualmente presenti nelle carceri italiane sarebbero cinquantotto. Queste persone sono attualmente censite in 10 sezioni a loro riservate e sono tutte collocate in istituti maschili. “Il Garante nazionale -si legge nella relazione- ha da tempo espresso l’opinione che sia più congruo ospitare tali sezioni specifiche in Istituti femminili, dando maggior rilevanza al genere, in quanto vissuto soggettivo, piuttosto che alla contingente situazione anatomica”.
In altre parole, bisognerebbe dare priorità alla percezione soggettiva dei diretti interessati (detenute/i), quindi alla loro identità di genere, piuttosto che basarsi semplicemente sui documenti anagrafici.
MIT: “Il vero problema è dopo il carcere”
“La vita da detenuti è complicata di suo. Per le trans, lo è di più -commenta Porpora Marcasciano, presidente onoraria del Movimento Identità Trans- In carcere sono isolate due volte perché sono tenute in sicurezza rispetto agli altri detenuti ma non godono neanche dei ‘vantaggi’, se così li vogliamo chiamare, degli altri detenuti”.
Tuttavia, se la vita nel carcere è difficile, la situazione all’esterno è ancora più preoccupante per la mancanza di strutture e servizi dedicati: “I problemi -prosegue- che poi spingono alla depressione e a queste situazioni estreme [riferendosi all’ultimo caso di cronaca, ndr], sono nel dopo-carcere, di cui nessuno si preoccupa. Le persone trans non hanno reti familiari alle spalle, soprattutto quelle immigrate, per cui vengono abbandonate a se stesse. Un paese civile dovrebbe pianificare dei percorsi, invece il tutto è affidato alla sensibilità di gruppi, di associazioni, di persone che fanno volontariato”.