Ho scritto, cancellato e poi riscritto queste righe decine e decine di volte, per giorni.
Esattamente dall’11 maggio, dal giorno dell’approvazione alla Camera del ddl sulle Unioni Civili.
Perché davvero non so esprimere bene quali sentimenti (o meglio, quale groviglio di sentimenti contrastanti) mi abbia suscitato questo risultato e allora ho deciso di lasciarli lì, a sedimentare, finché non è arrivata la stagione dei Pride ed è uscita la campagna di quello romano.
Nel frattempo la legge è stata promulgata dal Presidente della Repubblica, ratificata dal ministro della Giustizia Orlando e pubblicata in Gazzetta Ufficiale.
E un gruppo di fanatici si è organizzato per promuovere un referendum che abroghi la legge (o buona parte di essa).
Intanto è iniziata quella che a tratti mi è sembrata una guerra civile, con schiaffi, sputi, muri e barricate per imporre delle verità.
Con chi è arrivato perfino a dire che “chi si lamenta (di questa legge) non meritava e non merita alcun diritto”.
Non ho risposto a queste volgarità, perché ero troppo stanco, ma per fortuna c’è chi ha spiegato meglio di me che i diritti non sono concessioni che vanno “meritate”. Sono qualcosa di innato, che ci spetta.
Non sono un tipo da “meglio niente che una legge a metà”, perché studiare legge mi ha insegnato che meno diritti sono comunque di più che nessuno.
E non mi sento di recriminare chi festeggia un traguardo storico, seppur monco, per la comunità Lgbt, dopo oltre 30 anni.
Anche io ho sorriso l’11 maggio, ma dal giorno dopo ho ricominciato ad essere indignato.
Perché ad essere felice e soddisfatto di questa legge non ci riesco, no… Io voglio l’eguaglianza.
E questo non fa di me un “ingrato del cazzo”.
Non mi dà fastidio che ci sia chi sia soddisfatto, ma pretendo che non lo faccia nel mio nome o voglia impormi di essere felice.
Perché le unioni civili non sono il matrimonio e perché mio figlio resta un cittadino di serie B che non ha gli stessi diritti dei suoi coetanei.
È come se mi facessero finalmente entrare ad una festa bellissima – pagata in egual modo da tutti i partecipanti – dopo ore e ore di attesa, mentre gli altri sono stati dentro fin dall’inizio.
Invece che farmi entrare dall’ingresso principale come gli altri devo entrare dal retro, posso mangiare tutte le tartine tranne quelle al salmone (mentre gli altri possono) e cosa ben peggiore i miei figli non hanno diritto di partecipare alla festa, mentre quelli degli altri sono lì e si divertono.
Come pensate che io possa davvero festeggiare, essere felice, sentirmi pienamente accettato e voluto alla festa?
Forse avrei dovuto scrivere queste cose a tempo opportuno, ma ho preferito mettermi in un angolo e lasciare scorrere la mia vita, ricordandomi quanto al di lì di tutto sono fortunato ad avere una famiglia stupenda che è tale anche se lo Stato non ci riconosce.
Mi sono lasciato coccolare con amore da Luca, dalle sue prime frasi, dal suo sorriso contagioso, lasciando là fuori il brutto e il meschino.
Poi in questi giorni la campagna del Roma Pride mi ha risvegliato dal torpore, con le inutili polemiche che sono seguite sia per la sua forma (a cui ha risposto brillantemente Dario Accolla) che per i suoi contenuti e il suo slogan “Chi non si accontenta LOTTA”.
Avrei voluto intervenire ma ho capito che sarebbe stato inutile.
Chiedere di comprendere le ragioni dell’altro a chi si ostina a dire che bisogna solo festeggiare ed essere grati, sarebbe come pretendere che un analfabeta dei sentimenti possa amare.
E chiedere a chi non vuole accontentarsi e intende continuare a lottare di smettere di farlo, sarebbe come chiedere a chi ama con tutto se stesso di non farlo più.
È impossibile.
Ps: vuoi leggere i post precedenti di Luca ha due papà? Clicca qui.