Maura Rossi, classe 1922, è una signora distinta che dimostra molti meno anni dei suoi 94, compiuti il 30 aprile. L’aspetto trae in inganno: Maura ha fatto la bidella per 40 anni, è una donna del popolo, nell’accezione migliore del termine. La sua età traspare dai suoi ricordi e dal fatto che non vuole farsi fotografare perché “internet ruba l’anima”.
La “vera” prima volta delle donne italiane in cabina elettorale non è stata il 2 giugno, bensì il 10 marzo 1946, per le elezioni amministrative che interessarono quasi 500 Comuni. Lei ha votato per la prima volta alle amministrative, non per il referendum. Si ricorda di un’emozione diversa?
Sì, molta di più per la Repubblica: era una cosa più sentita. Eravamo tutte giovani, ci piacevano i principi, la loro eleganza, i bei vestiti. Mio zio mi è venuto dietro sino al seggio ripetendomi: “Guarda di votare per la Repubblica!”, perché lui aveva paura che io votassi la monarchia, perché sai, i vestiti, i principi. Poi io mi divertivo anche a farlo arrabbiare.
E cos’ha votato?
Eh, la Repubblica, che comunque non ha preso molti voti in più (circa due milioni, ndA). Il principe Umberto II, poi diventato brevemente re, aveva detto che la monarchia non poteva prendere così pochi voti, e che ne sarebbero serviti molti di più perché rimanesse la monarchia. E ci era diventato ancor più antipatico. Se lui se ne fosse andato ai monti, forse oggi ci sarebbe ancora il re; Se almeno avesse fatto un gesto…guarda che la guerra e i tedeschi sono stati tremendi, e suo padre (Vittorio Emanuele II, ndA) era stato un vile.
Aveva 22 anni: all’epoca possedeva abbastanza coscienza politica per sentire che era una cosa importante?
Sì, ma devo ringraziare lo zio che ho citato prima, Giuseppe: era una staffetta partigiana, ci insegnava tutto. Ma non creda che io avessi un fuoco che ardeva autonomamente dentro di me: avevo quell’idea lì grazie all’influenza della mia famiglia, in casa mia erano tutti un po’ così, un po’ di sinistra. Un po’ tanto di sinistra, mio marito compreso.
Anche mia mamma e mia nonna, quest’ultima analfabeta, erano contente di andare a votare per la prima volta. Mio nonno era l’unico a potersi ricordare di aver partecipato a qualche votazione, ma, secondo quanto raccontava, erano elezioni per finta, perché il voto dei mezzadri veniva comprato. Quindi non solo per le donne, ma per tutta la mia famiglia, quello del 1946 fu il primo voto democratico.
Oggi festeggiamo i 70 anni dal referendum che sancì la fine della monarchia nel nostro Paese, dal voto per l’Assemblea Costituente, in cui vennero elette 21 donne su 556, e i 70 dal primo voto delle donne italiane. Perché, anche se tecnicamente non lo fu, è questa data che è rimasta scolpita nella memoria collettiva.
Donne e diritto al voto in Italia
Le lotte per il voto femminile in Italia non divennero mai di massa, ma restarono relegate all’élite colta: i tentativi fatti a partire dal 1861 finirono sempre male. Mussolini introdusse nel 1925 il voto per le donne nelle elezioni amministrative, ma la cosa si tradusse in un nulla di fatto, visto che con le riforme del 1926 e del 1928 di fatto eliminò le elezioni.
Ci volle l’iniziativa di Palmiro Togliatti (Partito Comunista) e Alcide De Gasperi (Democrazia Cristiana) per introdurre il voto alle donne, con un decreto del gennaio 1945, durante il governo Bonomi. La questione non incontrò resistenza fra i partiti, tranne che in quello liberale, ma venne affrontata con poca attenzione, tanto che venne dimenticato di inserire l’elettorato passivo per le donne, cioè la possibilità di essere elette, oltre che di eleggere. Se ne accorse solo l’Udi (Unione donne italiane), associazione vicina all Partito comunista, fondata a Roma nel settembre 1944, che inviò un telegramma a Bonomi, chiedendo di riconoscere l’eleggibilità delle donne. Riconoscimento che arrivò un anno dopo attraverso il decreto 74 datato proprio 10 marzo 1946, il giorno delle elezioni amministrative.
Il voto delle donne nel resto del mondo
Il voto alle donne si inserisce nel cammino complessivo di tutte le nazioni, sempre lungo e spesso molto difficoltoso, nel passaggio dal voto a suffragio ristretto, dove bisognava rispondere a determintati requisiti per poter esercitare il diritto di voto (essere uomini, essere alfabetizzati, avere un certo reddito, etc), al suffragio universale. In Francia, ad esempio, il suffragio universale maschile si ottenne nel 1848, ma si dovette attendere oltre un secolo, fino al 1946, perché venisse esteso anche alle donne, mentre nel Regno Unito servirono solo 10 anni per passare dal suffragio universale, istituito nel 1918, che però prevedeva che le donne potessero votare solo dopo i 30 anni, a quello “universale per davvero”, ottenuto nel 1928.
Il primo Paese europeo a garantire il voto alle donne fu la Finlandia, nel 1906, e l’ultimo la Svizzera, nel 1971, mentre nel mondo il primo è stato la Nuova Zelanda, nel 1893, e l’ultimo l’Arabia Saudita, nel 2015. Con l’eccezione di qualche sultanato come il Brunei, dove non possono votare né donne né uomini, e il Vaticano, che essendo una teocrazia ammette come unico voto quello per l’elezione del Papa, a cui possono partecipare solo i cardinali entro gli 80 anni d’età.
Il voto delle donne e la loro partecipazione alla vita pubblica e politica sono state conquiste, ancor più di quanto fu per i poveri e gli analfabeti e ancora non del tutto compiute. Basti guardare ai numeri delle donne ai vertici delle aziende, dei partiti, nelle istituzioni. Una conquista che mette in crisi e scardina società patriarcali, 70 anni fa ancora più feroci e inique di adesso. Settant’anni, nella storia dell’umanità, equivalgono a un battito di ciglia. Considerare scontato un diritto acquisito così poco tempo fa sarebbe miope, oltre a comportare il rischio intrinseco che venga messo in discussione, per quanto remota oggi questa opzione possa apparire. Non a caso, la storia del voto alle donne si intreccia con la storia, ancora molto breve, della Repubblica democratica. Quella stessa in cui la classe politica degli ultimi anni ha suscitato reazioni di disgusto, disamore, allontanamento e scarsa partecipazione. Elementi che, a ben vedere, abbassano la guardia di chi vigilia sul mantenimento e l’ampliamento dei diritti, oltre che sulla tutela delle libertà fondamentali. Partecipare, continuare a esercitare il diritto di voto, interessarsi sono il solo modo per preservare i diritti acquisiti e il solo strumento in grado di cambiare veramente lo status quo.