A Bergamo una persona omosessuale è stata aggredita da altre tre persone in una escalation di violenza per cui è stato necessario chiamare l’ambulanza e trasportarla in pronto soccorso. La vittima ha preferito e deciso di rimanere anonima nonostante sia, successivamente, iniziato l’iter della denuncia d’ufficio.
Cosa porta la vittima a non denunciare il suo aggressore?
La professoressa Graziottin, relativamente alle donne vittime di violenza spiega che scegliere il silenzio invece che denunciare l’aggressore derivi da più fattori. Lo scoraggiamento davanti alla violenza subita col conseguente senso di impotenza e di solitudine. Oltre al silenzio contribuiscono anche il trauma subito, i sentimenti depressivi reattivi, l’angoscia, la paura che rendono decisamente difficile una difesa come rivolgersi personalmente ad un pronto soccorso o alle forze dell’ordine. Altro fattore da non sottovalutare è la vergogna per ciò che si è vissuto, sia all’idea di raccontare tutto, anche più volte, soffermandosi anche nei dettagli: ciò espone la donna a rivivere la violenza subita direttamente attraverso il ricordo, davanti ad un interlocutore talvolta incredulo, talvolta quasi più attento ai dettagli che alla persona. Infine vi è anche il senso di colpa, soprattutto quando la violenza avviene in condizione di rischio obiettivo, in cui esista una netta o maggiore vulnerabilità della donna (Graziottin, 2006).
Tale rischio obiettivo di vulnerabilità della donna è sovrapponibile al rischio di una persona omosessuale all’interno di una cultura eterosessista ed omofoba che sicuramente rendono l’omosessuale vulnerabile. Tale contesto continua a far sentire le persone omosessuali come “sbagliate”, senza la possibilità di essere inclusi, con la possibilità, invece, di vedersi negata anche la possibilità di far appello alla legge, per essere rispettati, quando nel nostro Paese manca ancora una legge sull’omofobia, nonostante le diverse proposte giunte in Parlamento. Dunque quale rispetto o giustizia si potrebbe pretendere dalle istituzioni? Non trovare l’alleato nell’istituzione che, di fatto, sceglie di non muoversi ancora in tal senso, fa sentire la vittima abbandonata e sola col proprio dolore. “Ottenere giustizia” oggi, sembra sempre più essere un diritto calpestato.
Dunque il crescente senso di colpa interiorizzato della vittima potrebbe talvolta portare la persona a pensare “me lo sono meritato” tacendo e non denunciando, come se fosse un prezzo “concordato” da pagare quando si vuol esprimere se stessi. Tale condizione si associa ad un insieme di sentimenti negativi, proprio sulla qualità dell’aiuto, del supporto e della giustizia che una persona (donna o omosessuale) può ottenere. E, soprattutto, la crescente evidenza del rischio di ritorsioni, da parte del violentatore che talvolta si esprimono con nuove minacce. E una società omofoba è una costante minaccia. Il silenzio sarebbe dunque la risposta alla paura della possibilità che la violenza si ripeta, sia fisicamente che moralmente.
In tale contesto, però, è altrettanto grave l’indifferenza delle persone che possono trovarsi davanti ad un fatto di cronaca simile, scegliendo di non fare nulla davanti ad una violenza, divenendo la maggior parte delle volte spettatori silenti ed in qualche modo complici di uno spettacolo violento. Sicuramente bisognerebbe agire su più livelli, in un’ottica preventiva. Conoscere quali sono le sensazioni e le emozioni negative a seguito di una violenza può aiutare molte vittime ad uscire allo scoperto e a rompere quel silenzio assordante dettato dalla paura; in seconda istanza, la possibilità di sentirsi sicuri in termini sociali ed istituzionali potrebbe far riacquisire la fiducia verso le istituzioni che danno la sensazione di abbandono. Infine, conoscere queste dinamiche dovrebbe ridare alla comunità il vero senso di comunità, della possibilità di contare sul prossimo come alleato contro ogni forma di violenza, di discriminazione e di mancato rispetto, invece che chiudersi, distanziarsi e scegliere di non agire.