Il silenzio è uno spazio riempito dal nulla. Dall’assenza. Dalla morte. Tutte tematiche toccate da Rosa Maria Di Natale, nel suo romanzo Il silenzio dei giorni (Ianieri Edizioni, 2021). Ma sarebbe un errore credere che le pagine di questo libro – vibranti come il cantare delle cicale nelle campagne siciliane in agosto, quando il caldo deforma l’orizzonte e brucia anche i pensieri – non urlino, al tempo stesso. È un urlo soffocato di una madre disperata. E ci sono, pure, le grida di un padre incapace di amare se non nell’unico modo in cui gli hanno insegnato: quello che si modula sulle corde della mascolinità tossica. C’è l’assenza di parole che vorrebbero uscire tutte insieme. E il vociare di paese. Tutto lì, pagina dopo pagina.
Il silenzio dei giorni, in un lungo flashback
A parlare, in un ufficio milanese, è Peppino Giunta. Che decide di confessare la verità su un terribile segreto di famiglia, che sopravvive – appunto – nel silenzio di tutti coloro che sanno. E lo fa parlandone con Riccardo Armeni, il caporedattore del giornale per cui lavora. Un lungo flashback che si nutre di vita di paese, di parole aspre (in dialetto) per raccontare verità ancora più dure, di profumi di Sicilia, di momenti di vita immobile e sempre uguale a se stessa. Per chi, come chi scrive, ci vive in questa terra e ci ha vissuto quando la modernità era qualcosa che accadeva altrove, non sono solo semplici parole che raccontano un mondo. Sono tagli sulla pelle, graffi che bruciano. Sotto il sole. In mezzo alle cicale. Mentre il pomodoro asciuga in terrazza e la vita succede, sempre altrove.
I colori e il guastafeste
E poi ci sono i colori. Catania, che è nera e piena di buttane. Gli occhi di madre, «ora nocciola, ora erba di vento». La terra scura di campagna e il colore delle arance. La luce abbacinante della piazza di paese, dove tutti sanno ogni cosa degli altri. Le «onde tranquille che brillavano rubando i colori al cielo e al sole». Chi vive a queste latitudini lo sa. Sa che tutto questo non solo esiste, ma coesiste con la tragedia del quotidiano. E sulla famiglia Giunta la tragedia si abbatterà, quando quell’equilibrio fatto di immobilismo e di vita che si ripete sempre uguale a se stessa arriverà qualcosa a sconvolgere i piani. Il guastafeste. In dialetto, u sconzaiochi.
La perdita e il fuoco
Peppino Giunta si troverà a confrontarsi con la perdita. Di un fratello, Saverio, che a un certo punto non riconoscerà più. Prima, perché la vita gli promette un futuro radioso, a quel fratello taciturno e così diverso dagli altri, nella città lontana: quella Catania nera popolata di buttane e sotto l’Etna, «una gigantessa nera, fredda di neve solo per due mesi all’anno ma con una pancia di fuoco liquido pronta ad aprirsi quando uno meno se lo aspetta». E quel fuoco, che divora tutto, si abbatte nella vita di suo fratello, quando conoscerà un ragazzo, u puppu (il frocio) del paese la cui amicizia cambierà tutto. E che muoverà gli eventi, fino a un finale tanto doloroso, quanto inaspettato.
L’omaggio agli amanti di Giarre
È un omaggio, il libro di Rosa Maria Di Natale, a fatti accaduti altrove, troppo tempo fa e le cui cicatrici sono visibili, ancora adesso. «Nel 1980 a Giarre, un centro del Catanese, Giorgio e Toni, due giovani omosessuali, furono trovati morti, di certo uccisi dall’omofobia e rifiutati dalla loro comunità» ci rivela l’autrice, nella nota finale a chiusura de Il silenzio dei giorni. «Non è ancora stata fatta completa chiarezza sulla dinamica dei fatti. Questa non è la loro vera storia, ma è un racconto ispiratomi da quella tragica morte». Un dono, dunque, a quell’episodio su cui ancora oggi aleggiano troppi non detti. «…A volte capita» ricorda l’autrice «che una cosa accaduta nella realtà ne richiami altre del tutto inventate, e non per questo meno veritiere della vita che siamo chiamati a vivere». E in questo romanzo di vita ce n’è tanta. E a un certo punto urla, per spezzare il dolore del silenzio.