Una sentenza che lascia l’amaro in bocca, quella della Cedu. La Corte Europea dei diritti umani, infatti, doveva esprimersi in merito alle violenze e alle persecuzioni subite a Budapest da Andrea Giuliano, attivista Lgbt+, negli anni in cui era residente in Ungheria e dove è stato perseguitato per aver irriso un gruppo di estrema destra. Gruppo che lo ha preso di mira, minacciandolo. A tal punto che ha dovuto lasciare il paese. E a ricorrere alla Cedu per ottenere giustizia. Ma le cose non sono andate come sperava. Vediamo insieme di ricostruire la vicenda.
Il pride del 2014
Come abbiamo riportato in passato «La vicenda di Andrea ha inizio nel 2014 quando durante il Budapest Pride, il giovane attivista si è presentato vestito da prete irridendo “Motociclisti dal sentimento nazionale” un gruppo xenofobo, omofobo e antisemita, caratterizzato dall’inquietante slogan “Dai gas!”. La sua sprezzante ironia è stata accolta con minacce su web, appostamenti sotto casa, pressioni sul posto di lavoro affinché fosse licenziato finanche una taglia di 10.000 dollari sulla sua testa».
Le minacce e la diffusione dei dati sensibili
E ancora: «A seguito della sua provocazione, Andrea Giuliano ha subito un processo per aver infangato il “buon” nome del gruppo di motociclisti (gli stessi che hanno posto la taglia di 10.000 dollari); ha denunciato centinaia di persone per hate speech, minacce di morte, stalking, violazione della privacy ed altre accuse ma le autorità hanno preferito non indagare lasciando impuniti i responsabili (forse perché dietro alle minacce ci sono diversi personaggi che ricoprono ruoli pubblici e politici?)». Inutili i tentativi di avere giustizia in Ungheria. «Abbandonato dalle autorità locali, dopo aver anche perso il lavoro, Andrea ha scelto di rientrare in Italia». E quindi di rivolgersi alla Cedu, per ottenere giustizia.
La sentenza della Cedu
In uno stato su Facebook, sulla pagina del documentario che racconta la sua storia, The Right To Provoke, Andrea Giuliano spiega come sono andate le cose. «In breve, la valutazione comincia dandomi ragione (paragrafi 26 e 27). Le cose cambiano a partire dalla fine del paragrafo 28, dove si legge che la Polizia non può essere sovraccaricata di oneri impossibili per dimostrare la colpevolezza di chi diffonde i dati sensibili della vittima, di chi minaccia di morte, di chi mette taglie sulla testa, di chi incita allo stupro punitivo e di chi diffama. Il problema è che io stesso ho fornito tutte le prove e i dati necessari per identificare gli attori di questi crimini. Al paragrafo 29 viene spiegato che la polizia ungherese ha condotto correttamente le indagini, che purtroppo non sono bastate per identificare i criminali di cui sopra».
Cedu: “Infondate le accuse” allo stato ungherese
E ancora: «Viene spiegato che la polizia ha scritto a Facebook chiedendo l’indirizzo IP dei criminali, ma il servizio clienti non ha risposto, quindi hanno chiuso le indagini. Viene anche detto che non c’era bisogno di contattare la polizia statunitense (che invece è stata contattata in altri casi) per risalire ai proprietari delle “testate” giornalistiche neofasciste che hanno diffuso i miei dati personali in rete, le quali hanno i server negli USA. La motivazione? I crimini che ho elencato pocanzi vengono letteralmente derubricati a “intimidazioni”, e quindi non abbastanza gravi da richiedere un’azione concertata. Al paragrafo 30, la Corte sostiene che io non sono riuscito a dimostrare di essere stato discriminato dalla polizia, almeno non per gli standard della Convenzione Europea sui Diritti Umani. La sentenza si chiude col paragrafo 31, in cui la Corte ritiene le mie accuse contro lo stato ungherese INFONDATE».
“Una sentenza pericolosissima”
Amare, infine, le constatazioni dell’attivista: «In situazioni del genere, il compito dello stato dovrebbe essere quello di proteggere le vittime, specie quelle appartenenti a minoranze oppresse. Questa sentenza è pericolosissima perché sostanzialmente dice che non si ha il diritto di satira e parodia nei confronti delle destre. È molto brutto vedere un organo che dovrebbe essere super partes andare contro al diritto naturale e al diritto positivo. Ciliegina sulla torta, questa sentenza è DEFINITIVA». Ma nonostante l’amarezza, non si dà per vinto Andrea Giuliano: «La mia lotta» scrive ancora «non si ferma qui».