È uscito recentemente un contributo di Paolo D’Achille sul sito dell’Accademia della Crusca in relazione al linguaggio inclusivo. Nel suo lungo ed articolato intervento – condivisibile in molti punti, per altro – l’autore prende posizione su almeno tre questioni:
1. l’uso del maschile esteso, da considerarsi neutro il cui uso non cancellerebbe le donne e le identità non binarie
2. l’asterisco e le criticità in cui il suo uso potrebbe incorrere
3. lo schwa e la difficoltà che può portare il suo uso, nella scrittura quanto nella pronuncia.
L’autore adotta in tutti e tre i casi una posizione conservatrice, concludendo nel suo discorso: «Non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire.
La lingua, un organismo che evolve
Paolo D’Achille è uno dei massimi studiosi di lingua italiana del Paese. Affronta la questione in modo molto garbato e con grande professionalità. La sua è una fotografia molto accurata sia degli usi linguistici, sia dello status quo dell’italiano standard. Formula magica, quest’ultima, che indica la lingua delle grammatiche e dei libri: l’italiano letterario. Una varietà per sua natura cristallizzata. Messo costantemente sotto attacco dagli usi quotidiani che, facendosi strada, arrivano nelle grammatiche soppiantando vecchie regole. Un esempio per tutti: “egli” è stato ormai sostituito dal pronome “lui”. D’Achille, per altro, fa notare tale dinamismo linguistico quando scrive: «Ogni lingua, a meno che non si tratti di un sistema “costruito a tavolino” come sono le lingue artificiali […] è un organismo naturale, che evolve in base all’uso della comunità dei parlanti».
Il bisogno della rappresentazione nella società attuale
Basterebbe questo a mettere in discussione quanto lo studioso scrive in chiusura del suo intervento. L’evoluzione linguistica è un qualcosa che, appunto, non si costruisce a tavolino, ma consegue all’adattamento. E la società attuale ha identificato un bisogno: avere una rappresentazione, da parte di certe categorie, nel parlato e nello scritto. Un altro errore che fa lo studioso, a parer di chi scrive, è quello di considerare una proposta – quale l’uso dello schwa – una forzatura al servizio di un’ideologia. Quando invece di mera proposta si tratta. L’autore per altro si dimostra su posizioni di progressismo linguistico laddove ricorda che è possibile usare i cognomi senza l’articolo nel caso in cui ci si riferisce a donne: Bonino in luogo di “la Bonino”. Tale scelta, che per altro è grammaticalmente sostenibile, è frutto di una forzatura ideologica o è il risultato di un’esigenza sociale (non marcare il cognome, in nome di una parità di genere)?
Un maschile “né di destra né di sinistra”
Non voglio, in questa sede, ritornare su tutti gli spunti offerti dallo studioso. Certo, si potrebbe far notare a D’Achille che ciò che lui ritiene linguisticamente naturale – ovvero il maschile sovraesteso per indicare sia uomini sia donne – è a sua volta il frutto di un processo linguistico di una società patriarcale e sessista. E forse sarebbe il caso di valutare l’idea che le grammatiche, registrando certi usi, altro non hanno fatto che istituzionalizzare l’uso di una comunità di parlanti. Quella in cui i maschi dominavano e le femmine subivano. Obbedendo all’idea (destinata a farsi ideologia) diffusa, per cui l’uomo era superiore alla donna. La pretesa di rendere il maschile generico una sorta di neutro includente (è la posizione che emerge nell’articolo) ricorda per altro le affermazioni di certi politici che non si definiscono né di destra né di sinistra, ma che poi finiscono col dire (e fare) cose di destra. Il maschile sovraesteso ricorda proprio tale dinamica. Ma, appunto, non è questa la sede per questo tipo di obiezioni.
La “vittoria finale” dell’italiano standard
Ciò che mi ha stupito è la reazione a questa presa di posizione. Rispettabile, sia ben chiaro (nella misura in cui D’Achille usa toni garbati e non timide aperture nei confronti di altre questioni), ma non condivisibile per quel che mi riguarda. Reazione di esultanza, come se la Crusca avesse assegnato la vittoria finale allo status quo della lingua italiana. Facendo vincere, in soldoni, coloro che difendono le care, vecchie e buone regole della lingua. E, navigando qua e là nei profili di coloro che hanno condiviso l’articolo in questione o i pezzi giornalistici che ne parlano, le cose che più mi hanno stupito sono sia l’aggressività con cui si tifa Crusca, sia il fatto che a esultare siano molti uomini gay.
La paura genera aggressività
Interagendo sotto una condivisione di Vera Gheno, facevo notare ad un utente che il paradigma scientifico nel quale si muove la riflessione di D’Achille potesse essere viziato da un sessismo linguistico di base. Un altro utente reagiva, in modo polemico, rispondendo: «Allora che facciamo, bruciamo sulla pubblica piazza tutti i libri finora scritti perché viziati da un sessismo di base e instauriamo una cultura dall’anno 0?». Torna, in questo commento – e in molti di ugual fattura – la paura che possa esserci non solo un’imposizione, ma anche di una volontà censoria. Evocando immagini di regimi che bruciavano i libri in pubblico. La reazione, di fronte alla proposta di usi inclusivi, è dunque di paura. E quando si ha paura, scatta il meccanismo dell’aggressività.
Un passo indietro: petaloso
Non è una novità. Già sempre Gheno, nel suo Potere alle parole, faceva notare che l’opinione pubblica si è svegliata quando emerse il caso di “petaloso”. La Crusca rispose, al bambino che chiedeva se il termine poteva essere accolto nel vocabolario, che ciò sarebbe avvenuto solo se quella parola fosse stata accolta dalla comunità parlante e divenuta d’uso comune. Si levò un coro di proteste, alcune anche molto violente, per cui si sdoganava una parola brutta, inesistente e che inquinava l’italiano. In questa prospettiva, sembra di trovarsi di fronte a un nazionalismo linguistico che – come tutti i conservatorismi, anche reazionari – rigetta qualsiasi forma di innovazione nella lingua. Ma la lingua è, per sua natura, mutevole e evolve col passare del tempo.
Il plauso dei maschi gay
Al di là di tali “incazzature” – e mi riferisco alla serenità con cui le persone si approcciano a tali questioni – c’è il secondo aspetto della vicenda. Molte persone omosessuali, per lo più di sesso maschile, che plaudono alla “presa di posizione” della Crusca ricordando che l’italiano è solo uno (e non è affatto vero), che la regola è quella da sempre (vallo a dire a “egli”, soppiantato da “lui”), che usare il maschile sovraesteso significa conoscere l’italiano corretto (ma in grammatica non esiste il concetto di “corretto/sbagliato”) e amenità simili. Ora, ho già messo tra parentesi le ragioni per cui certe affermazioni sono rigettabili, dal punto di vista linguistico. Ma c’è un altro aspetto, più politico, che andrebbe messo in luce.
Il boomerang della purezza linguistica
Insistere sulla “purezza” linguistica potrebbe essere un boomerang, proprio per le nostre stesse rivendicazioni. Pensiamo alla parola “matrimonio”. L’obiezione che si fa all’allargamento dell’istituto, anche per le coppie gay e lesbiche, è proprio di natura linguistica. Deriva da mater latino, dice chi si oppone, e in una coppia di uomini manca proprio la madre. Le coppie lesbiche invece, e le donne in generale, non dovrebbero toccar denaro, visto che “patrimonio” è qualcosa di attinente al pater. Se il principio della conservazione linguistica è valido, non dovrebbe esserlo anche di fronte a questo tipo di posizioni? Stessa cosa potrebbe dirsi del termine “famiglia”, istituzionalizzato da secoli in quelle formazioni sociali che prevedono il matrimonio tra persone di sesso diverso. Insomma, certo conservatorismo (insieme agli argomenti linguistici a corredo) mi sembra una posizione non solo debole, ma anche pericolosa.
Perché la gente è così incazzata con schwa e asterischi?
Torniamo, infine, alla domanda di partenza: perché la gente è così incazzata con schwa e asterischi? E perché anche dentro la comunità Lgbt+? Domanda di difficile risposta e che andrebbe analizzata in un dibattito pubblico a più voci (possibilmente lasciando a casa armi e coltelli). Personalmente credo che la comunità Lgbt+ abbia forti sacche di resistenza al nuovo che avanza. E che non sia un caso che queste resistenze siano più forti nella compagine dei maschi omosessuali. È una conseguenza di un sistema che, vuoi o non vuoi, ci informa nelle maglie del patriarcato. Il maschile sovraesteso non mette in discussione il nostro genere e l’identità che si costruisce attorno ad esso. Peccato però che quel patriarcato voglia farci fuori. E non averne coscienza, o infischiarsene, è un modo come un altro per essere utili idioti di un sistema che alla fine non cancella solo il femminile e le altre identità dal discorso pubblico. Cancella anche tutto ciò che è “fuori norma”. In nome di un’idea divenuta ideologia. E, in questo caso sì, con strumenti coercitivi.