Ha fatto molto scalpore la notizia di un concorso in polizia il cui bando è stato reso pubblico il 16 maggio scorso. In tale bando «con cui il ministero dell’Interno cerca 1381 nuovi agenti» si legge su Open, «la ricerca della propria identità di genere è sullo stesso piano di disturbi psichici come la schizofrenia». Avere un’identità non conforme al binarismo di genere, dunque, o al sesso assegnato alla nascita sarebbe da considerarsi – per chi ha redatto le norme del concorso – come ostativo per accedere all’arma.
Non la pensa così il presidente di Polis Aperta, Alessio Avellino, che ha scritto una lunga e articolata riflessione di cui riportiamo alcuni stralci (per leggere la versione integrale, clicca qui).
Non essere cisgender non è condizione patologica
«Il fatto che le conoscenze in quest’ambito siano ancora molto contrastanti tra loro e spesso influenzate da disinformazione e pregiudizio si denota dalla continua evoluzione delle nozioni che conducono alla definizione delle diagnosi per le persone che comunicano un’identità di genere non allineata al proprio sesso biologico o un’identità gender non conforming». Avellino ricorda che «nel 2010, la WPATH ha pubblicato il “De-psychopathologisation statement” nel quale ha chiarito che le identità di genere vanno ritenute varianze di genere e perciò le probabili espressioni di genere che ne derivano non devono ricevere attribuzioni negative o patologiche – comprese quelle disallineate stereotipicamente al sesso attribuito alla nascita. Sicché, non essere cisgender è solo la manifestazione dell’identità individuale di ciascuno che non deve essere tradotta in una condizione patologica».
Cosa dice il DSM
E continua: «Nel DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) IV-TR del 2001 vi era la definizione di disturbo dell’identità di genere che nella V edizione diviene “disforia di genere”. Perdendo il termine “disturbo” e acquisendo quello di “disforia”, il focus si sposta sul disagio soggettivo provato dalla persona e non su un disturbo generico dell’identità che lascia poco spazio all’empatia e molto alla preoccupazione. Questa nuova terminologia di diagnosi viene collocata non più nel capitolo delle parafilie e dei disturbi sessuali: potrebbe apparire una sfumatura, in realtà, segna la trasformazione della diagnosi e del suo campo d’interesse: da esclusivamente comportamentale, sessuale e disturbato, ad uno più vasto che riguarda l’identità e personalità del soggetto tutto».
Dal sesso al genere
Ancora, un «altro punto che potrebbe non risaltare ad un occhio non critico è il passaggio dalla parola “sesso”, che dominava l’edizione precedente, alla parola “genere” che anche in questo caso segnala uno slittamento del focus su aspetti che non riferiscono al mero piano comportamentale. Il cambiamento da considerare forse il più importante in termini di comunicazione è stato l’eliminare dai criteri diagnostici quello dell’orientamento sessuale. Si tratta di una vera svolta, in quanto segnala l’aver preso atto che l’orientamento sessuale non costituisce un “campanello d’allarme”: diversamente dalle vecchie edizioni affette da un pregiudizio etero-normativo, in cui si riteneva l’orientamento eterosessuale un segnale di predizione per chi si sottoponeva al cambiamento chirurgico del sesso».
“In che modo potresti mettere in pericolo l’altro?”
Durante la sua lunga dichiarazione, Avellino centra il punto della questione in questo passaggio: «Da persona trans, ho esperienza diretta dell’iter psicologico da affrontare per ottenere la relazione che attesti l’idoneità all’accesso alla terapia ormonale sostitutiva secondo la legge 164/1982. Una sostituto commissario che ha conosciuto profondamente la mia esperienza lavorativa correlata al mio percorso di affermazione di genere, un giorno mi disse: che assurdità però, sei stato sicuramente più “controllato” te psicologicamente che chiunque altro non trans, in che modo potresti mettere in pericolo l’altro con una consapevolezza di te così determinata? Mi fece sorridere e poi, per qualche giorno, riflettere».
Terapia non è invalidante per un poliziotto
Il presidente di Polis Aperta pone dunque interrogativi che segnano tutte le criticità dei criteri di ammissione al concorso in questione: «In che modo in fase concorsuale la commissione potrebbe essere in grado di rilevare “segnali di disforia” responsabili di un non ottimale servizio? In che modo la disforia di genere e non più “il disturbo dell’identità” potrebbe influire nello svolgimento del lavoro di polizia? È pretenzioso affermare che la TOS (terapia ormonale sostitutiva) sia invalidante per un poliziotto, dal momento che “rilevare disforia” non significa rilevare una terapia ormonale in atto: vi sono persone transgender che non richiedono la terapia e la medicalizzazione».
Le domande da porsi tra le forze dell’ordine
Per Avellino «è chiara l’inadeguatezza dei regolamenti – scientificamente parlando – e profondamente critico diviene il passaggio “disturbi dell’identità di genere attuali o pregressi” dal momento che la disforia di genere non è più un disturbo – secondo gli aggiornamenti delle pubblicazioni sopramenzionate – e non può essere diagnosticata “coattamente” in nessuno soggetto nell’imminente immanenza, figurarsi nel “pregresso” che lascia libera interpretazione dello specifico significato: pregressi perché risolti o mai diagnosticati? E se ci si riferisce ad una condizione di “risoluzione del disturbo”, la domanda che sorge spontanea è in che modo?» Domande che nelle forze dell’ordine andrebbero prese seriamente. Forse con un pizzico di consapevolezza in più, prima di stilare criteri come quelli che vogliono escludere le persone transgender. In nome di cosa, non è dato ancora saperlo.