La questione sull’obiezione di coscienza è tornata prepotentemente alla ribalta, grazie a una serie di fatti che riguardano sia noi persone Lgbt sia le donne, come categorie specifiche, in ambiti quali le unioni civili e l’interruzione di gravidanza. Più in generale, poi, tale discorso interessa anche il resto della società, rischiando di divenire un grimaldello ideologico che può portare chiunque a non obbedire ai propri doveri, in virtù del credo personale (sia esso politico o religioso) e questo può rappresentare un problema di ordine pubblico.
Non è una novità il fatto che, all’indomani dell’approvazione dell’ex ddl Cirinnà, vi siano state resistenze dal fronte delle destre e delle forze confessionali, dove si evoca il “diritto” a non celebrare le unioni civili, perché contrarie ai propri valori (a cominciare da Susanna Ceccardi, la sindaca di Cascina). Discorso che, a ben vedere, si dà per scontato per la questione Lgbt ma che se venisse applicato in svariati settori porterebbe a una paralisi del normale andamento della nostra quotidianità. Sono un docente, sono un attivista gay ma ciò non mi autorizza a non insegnare all’eventuale figlio/a di una sentinella o ad adolescenti omofobi, solo perché va contro i miei principi. Su di noi, invece, e sui nostri diritti si fa esattamente questo tipo di eccezione.
Emergono poi, dalla cronaca di questi giorni, alcuni casi di una certa gravità riguardo il corpo delle donne, la loro considerazione sociale e, forse, anche la loro salute. Mi riferisco alla notizia di qualche giorno fa, della morte della donna a Catania che aspettava due gemellini avuti tramite procreazione assistita. «Secondo i parenti, uno dei medici si è rifiutato di estrarre uno dei feti che aveva gravi difficoltà respiratore fino a quando fosse rimasto vivo, perché obiettore di coscienza» riporta Il Fatto Quotidiano. Le indagini sono in corso ed è il caso di sospendere il giudizio, fino a quando non si avranno notizie certe e inequivocabili su quanto è accaduto in quel reparto. Ma rimane un’ombra: quella per cui la fedeltà nei confronti del tuo dio – o meglio ancora, dell’idea che ti sei fatto di lui – possa essere più forte del dovere di salvare vite umane o, comunque, rispettarne il volere. E ciò è inaccettabile, in qualunque caso.
A Bari, ancora più recentemente, si è consumato un altro atto che definirei di “violenza culturale” nei confronti di una donna che ha abortito. Ad intervento eseguito, denuncia Repubblica, si è infatti vista consegnare un documento che riportava, testualmente: «Gentile signora su sua richiesta è stata sottoposta a ivg. Le auguriamo che l’intervento cui è stata sottoposta in data odierna rimanga unico. L’ivg ha delle implicazioni di ordine morale, sociale e psicologico e non solo una mera procedura chirurgica o farmacologica ma un rischio per la stabilità emotiva della donna con possibili ripercussioni sul piano relazionale. Perciò si dovrà adottare un valido metodo contraccettivo affinché la vita affettiva e sessuale possa svolgersi serenamente».
Sembra che per l’Asl pugliese una donna che ricorre all’interruzione volontaria di gravidanza sia un’irresponsabile che rischia di avere problemi di ordine mentale. A suggello di tutto questo, un’affermazione di malcelata condanna quando si parla di “implicazioni di ordine morale”, come se fosse dovere del medico valutare i problemi di ordine etico che possono stare dietro il ricorso a tale pratica. Pagina buia, tra le tante della sanità italiana, ma che va a colpire gravemente una scelta di vita – quella di non portare a termine una gravidanza – che si profila di per sé stessa come drammatica, di certo non decisa a cuor leggero e che meriterebbe un più rispettoso silenzio da parte di terzi.
Mi chiedo, a questo punto, se non ci troviamo di fronte a un nuovo scenario in cui il ricorso all’obiezione di coscienza non debba essere definitivamente impedito a chi si accinge a esercitare la professione medica (e un discorso a parte meriterebbe anche quella “politica”), e non solo in ambito ginecologico. A ben vedere, infatti, un tempo – quando esisteva il servizio di leva obbligatorio – l’obiezione di coscienza era sì garantita, ma escludeva dalla carriera nei corpi armati chiunque si fosse dichiarato obiettore, anche per un semplice lavoro di ufficio. Non dimentichiamo, inoltre, che le prossime sfide in ambito medico riguarderanno diversi temi: dal trattamento di fine vita alle tecniche riproduttive su cui si deve riaprire il dibattito nel nostro paese, per superare l’odiosa legge 40.
Siamo sicuri di volere ospedali in cui un medico, un giorno, si sentirà autorizzato a non rispettare le nostre ultime volontà o quelle dei nostri cari, a impedirci di avere prole (o di non volerla) e di gettare sulle nostre scelte il suo rimprovero morale? Un paese che si vuole dire civile ha bisogno di professionisti e non certo di moralizzatori. Anche perché, a ben vedere, questi ultimi ci sono già e le cose non sembrano andare nel migliore dei modi.
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No Dario, il punto non è abolire l’obiezione di coscienza, ma garantire il servizio in ciascuna struttura ospedaliera. Così fai il gioco di Avvenire che oggi grida allo scandalo di chi vuole abrogare l’obiezione di coscienza.