È morta Lidia Menapace, ricoverata per covid-19 nei giorni scorsi a Bolzano, nel reparto di malattie infettive. Aveva novantasei anni. Attivista del movimento pacifista e femminista, è stata la prima donna eletta nel 1964 in consiglio provinciale a Bolzano – assieme Waltraud Deeg – ed è stata anche la prima donna in giunta provinciale. Inoltre, è stata anche senatrice per Rifondazione Comunista nella legislatura dal 2006 al 2008.
Fu membro della Resistenza, in età molto giovane, e vi prese parte come staffetta partigiana. A guerra finita la ritroviamo impegnata nei movimenti cattolici. Negli anni ’60 ebbe l’incarico di lettrice di Lingua italiana presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ma l’incarico non venne rinnovato per un suo saggio, intitolato Per una scelta marxista. Si consumò così l’allontanamento con il movimento cattolico e l’avvicinamento al Partito Comunista Italiano. Quindi, nel 1969, fu tra le fondatrici de il Manifesto. Grande il suo impegno nel movimento femminista, e negli anni ’70 fece parte del Comitato per i diritti civili delle prostitute.
«Ritengo» ebbe a dire già in un suo articolo del 1999 «che in ambito culturale cristiano o ebraico-cristiano il massimo di influenza patriarcale si noti nell’obbligo di scegliere una forma e una sola di sessualità. Si è quasi obbligati ad essere etero perché ciò giova alla riproduzione e a stabilire una necessità di rapporto con l’uomo». Visione che Menapace contestava, non solo con grande lucidità, ma anche con uno sguardo che potremmo definire rivoluzionario. «La strada di comprensione più proficua a me sembra invece proprio quella di chi ritiene che qualsiasi fissità di comportamenti, sia quelli etero che quelli omo, riveli una sorta di dipendenza, “obbediente” o “trasgressiva”, dal patriarcato, mentre la sessualità sperimentata in tutte le sue forme mi sembra una avventura di maggiore libertà e creatività».
(Foto di copertina di Potere al popolo)
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