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“Assegnata maschio”: la vera storia di Sophie Labelle

di Elisa Manici e Antonia Caruso

Sophie Labelle, 30 anni, è una fumettista canadese, che nel 2014 ha creato la striscia Assigned male comics (disponibile gratuitamente su vari social media, tra cui Facebook, Tumblr e Twitter) e fa parte dell’ondata di attiviste e attivisti trans che negli ultimi anni hanno rivoluzionato la rappresentazione mediatica delle persone trans sia col loro stesso lavoro artistico sia con l’attività politica. L’abbiamo incontrata l’11 maggio scorso nella sede del Mit a Bologna, prima tappa italiana del tour europeo che l’ha tenuta impegnata negli ultimi tre mesi. Oratrice consumata, ha risposto alle nostre prime domande facendo un parallelo tra l’essere trans e disegnatrice.

Hai sia i superpoteri di essere trans sia quello di saper disegnare. Ti senti responsabile verso la comunità trans?

No, credo che le persone trans dovrebbero essere libere di disegnare fumetti o comunque lavorare sui progetti che preferiscono, senza che ci siano obblighi verso la comunità. Disegno principalmente, anzi, solamente, fumetti a tematica trans, perché questo mi spinge a creare e raccontare storie. Crescendo ho sentito questa mancanza nelle fiction, un bisogno di personaggi in cui identificarmi. Ho un oscuro passato segreto in cui non sono stata assegnata fumettista alla nascita: quando ho iniziato a disegnare Assigned Male Comics stavo studiando da insegnante elementare, e ho dovuto transizionare in questo nuovo lavoro, ho dovuto impararne le modalità. Mia mamma pensa ancora che sia una fase, ma anche da bambina disegnavo molti fumetti e mi vestivo da fumettista. Mia mamma ha ancora difficoltà a usare i pronomi da fumettista giusti. Ma, in definitiva, non è qualcosa che farei se non sentissi il bisogno di creare personaggi trans.

Hai avuto difficoltà a fare coming out come fumettista?

È stato difficile all’inizio. Mia mamma non voleva che mi vestissi da fumettista fuori di casa. Ogni volta che torno a Montreal lei mi chiede quando tornerò all’insegnamento, e io le rispondo: mamma, questa è la mia vita, questa è chi sono.

C’è però un legame tra l’insegnamento nelle scuole elementari e i tuoi personaggi, in un certo modo. Tu sei stata anche animatrice a un campeggio per ragazzini trans e intersex. I personaggi delle tue strisce, almeno quando iniziano i fumetti, hanno proprio quell’età: Steffie ha 11 anni. Quanto ti ha influenzata il tuo background di studi?

L’esperienza di lavorare con bambini trans è stata fondamentale: sono un’attivista trans da quando ero una teenager, e ho lavorato molto con i ragazzini trans. Ho scoperto attraverso quel lavoro che sono costretti dalle circostanze a diventare educatori molto presto, di se stessi, dei genitori, dei compagni. Dall’inizio del campo, prima dei fumetti, ne sono stata rappresentante e organizzatrice. Sono stata io a stare al fronte quando venne annunciato questo campo, nei mesi precedenti in Canada ci fu la prima vera e propria tempesta mediatica sui bambini trans. Prima di allora sembra che i media ritenessero che gli adulti trans prima non fossero bambini trans. Almeno una volta alla settimana c’erano da fare interviste, a volte insieme ai bambini iscritti. Mi rendevo conto di come tutto il lavoro che facevamo con i genitori e bambini potesse venire disfatto dai giornalisti. Le loro stesse domande non venivano mai messe in discussione: non c’era posto nei media per le persone trans che le contestassero, non si dice mai al pubblico che le domande stesse sono sbagliate. Non è una sorpresa che io abbia iniziato Assigned male una settimana dopo la fine del campo. Avevo un sacco di cose di cui sfogarmi, ero molto arrabbiata.

Il personaggio principale, Steffie, è stato inventato come un modo di restituire a questi bambini il potere di rispondere ai media o in generale alle figure di autorità. Invece di fare semplicemente quello che le viene richiesto Steffie spiega perché le cose sono sbagliate nella società. Il lavoro crea un contrasto tra i miei personaggi, che ora sono teenager, la serietà delle tematiche trattate, che non ci vengono mai mostrate nei media, come le micro aggressioni, e come queste forme di violenza si accumulino nelle vite delle persone trans, anche quando sono molto giovani.

Quanto c’è di te in Steffie, come elemento autobiografico?

Non c’è niente di davvero autobiografico nei miei fumetti, la gente lo trova davvero strano: si aspettano che le persone trans siano capaci di parlare soltanto della propria esperienza. Metà di internet pensa davvero che io abbia 13 anni. Ricevo molto spesso messaggi come: “Ma disegni benissimo per la tua età, tua mamma deve essere così orgogliosa di te!”

Nelle mie storie ci sono tratti ed esperienze che ho trovato nella comunità trans, oltre la mia esperienza personale. Penso che la cosa più autobiografica del personaggio sia che a volte suona come un’enciclopedia, per la sua età. Essendo sullo spettro autistico, è una cosa di cui ho avuto esperienza in prima persona, crescendo. Il fatto che non sia un’opera autobiografica suona strano soprattutto ai miei cyberbulli. Da subito ci sono state persone terf che affermavano: “Questa attivista trans pericolosa cerca di farsi passare come una tredicenne! Dà una rappresentazione falsata di sé!”

Forse perché Steffie, diminutivo di Stephanie, è suona molto simile a Sophie.

La narrazione mainstream che abbiamo qua in Italia delle persone trans è sempre quella di gente che si autoflagella, che soffre, che vive nel dolore delle fiamme eterne, invece i tuoi fumetti sono empowering, perché sono molto leggeri ma anche molto pensati, e questo va in contrasto con questa narrazione di persone che subiscono e basta. Anche in Nord America c’è questa narrazione continua di dolore? Perché secondo te le persone cis hanno bisogno di sentirsi raccontare questa storia di pene e sofferenze, rispetto alle persone trans?

Credo che sia per il fatto che vogliono sentirsi buoni con se stessi. Oggi non ho ucciso una persona trans, merito un regalino. Le persone cis spesso si sentono di essere state dimenticate se non ci congratuliamo con loro per non ucciderci attivamente. È terribile.

Per quanto riguarda l’aspetto dell’autoflagellazione, come il dimostrare che si sta soffrendo veramente per poter essere trans, penso che molte persone vedano ancora le persone trans come malate. Alcune persone si agitano vedendo che i miei personaggi sono per lo più orgogliosi di essere trans, un concetto molto estraneo a molte persone. C’è questa teoria della cospirazione su internet, generata proprio da questo messaggio empowering: per essere in grado di fare un fumetto empowering sulla condizione trans, è impossibile che io sia davvero trans, e pensano che il mio essere trans sia solo una qualche schema elaborato per mettermi in grado di fare fumetti sul tema.

Anche in Italia abbiamo un’infestazione di Terf: come possiamo sconfiggerle? Visto che i personaggi dei tuoi fumetti sono adolescenti, e che le Terf criticano proprio l’inizio della terapia ormonale in preadolescenza, come si può contrattaccare?

Non ho una ricetta da offrirvi, personalmente io lo faccio con i fumetti. Probabilmente a queste persone manca l’empatia, vedono le persone trans come strumenti teorici, osservano come funzionano bene sulla carta. Non sanno cosa vivono le persone trans. Ho lavorato con più di cento di questi bambini, se hai un minimo di empatia li supporti senza se e senza ma. Se solo li avessero incontrati non direbbero mai le cose che dicono.

Hai letto Alters, il fumetto della Image con una supereroina trans? Lo sceneggiatore Jenkins ha fatto un buon lavoro di advocacyincludendo nel volume interviste ad attiviste e alla colorista del fumetto, Tamra Bonvillain, anch’essa trans. Però la rappresentazione del corpo della protagonista Chalice è quella della supereroina classica: un corpo cis molto palestrato, che non sembra affatto un corpo trans, non c’è molta differenza tra lei e Supergirl. I corpi dei tuoi personaggi invece sono molto fluffy, quasi senza genere. Il corpo è un tema centrale nelle vite trans: cosa pensi della rappresentazione del corpo trans nei fumetti? C’è una scelta politica per cui hai deciso di disegnarli in quel modo?

I miei fumetti non devono essere per forza realistici, il mio stile è un po’ minimalista – ma non troppo. Ho deciso di usare uno stile più androgino, il pubblico non riesce neanche a determinare il genere degli adulti cisgender che disegno.

Ho voluto proprio evitare del tutto la rappresentazione della transizione. Non si vede nessun personaggio che transiziona, che va dal dottore, che prende ormoni, che si sottopone a un’operazione chirurgica, non perché sia contraria a questo tipo di rappresentazione ma perché nei media mainstream ci si focalizza molto sui corpi delle persone trans dimenticando invece le microaggressioni che subiamo. Per questo ho deciso di mostrare più persone grasse, persone disabili, persone di colore.

Per il tuo lavoro hai ricevuto molte minacce, soprattutto su internet. In un caso, ad Halifax (Canada, nrd) è saltata una presentazione. Hai affrontato la violenza sia sul web sia nella vita reale: come reagisci, sia a livello politico che professionale?

Avere degli hater così attivi e violenti da un certo punto di vista mi stimola molto, sono stati i primi lettori veramente convinti. All’inizio del mio lavoro su Assigned Male ho trovato un intero articolo che parlava di me su siti di terf e nazi. Mi ha fatto rendere conto che quello che facevo era importante, funzionava. È stata la ragione principale per cui ho continuato.

Ma hanno pesato molto sul mio benessere, sono molto ansiosa e preoccupata, anche perché so che ci sono persone che fanno parodie in chiave razzista o transfobica.

In un certo qual modo sono molto contenta di aver affrontato questa cosa da un punto di vista privilegiato. In occasione dell’evento di Halifax, ho avuto l’opportunità di vedere in prima persona come transfobia, antisemitismo e supremazia bianca lavorano insieme per mantenere questo sistema di dominazione.

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