Cosa c’entrano Genova e la Diaz con Gaypost, vi starete chiedendo. A prima vista, forse, nulla. Ma noi di Gaypost siamo convinti che i diritti civili, sociali e umani siano patrimonio di tutti e che qualsiasi violazione avvenga riguarda ognuno di noi, che ne sia direttamente coinvolto o no. Succede con la negazione dei diritti delle persone LGBT, succede con la violazione della dignità delle donne, con il diritto dei migranti ad un futuro migliore e succede, anche, con il diritto di non essere torturato e massacrato da chi sarebbe chiamato invece difendere i cittadini e solo per avere esercitato la libertà di manifestare contro qualcosa che non condivide.
D’accordo con tutta la redazione di Gaypost, abbiamo scelto di parlarvi di quella notte riproponendovi la mia cronaca dell’epoca, scritta poche ore dopo il blitz. L’entusiasmo per questo mestiere e la convinzione che non c’è miglior testimonianza di chi le cose le vive sulla propria pelle, portarono me e Manuela a Genova nel luglio del 2001. Il risultato potete leggerlo di seguito nell’articolo originale apparso su “L’Ora” di Palermo e su “il Nuovo”.
“Io e i celerini nella scuola Diaz”
Una giornalista che era a mezzanotte all’interno della scuola Diaz di Genova racconta l’assalto al Media Center del Gsf. “Il sangue scorreva, hanno spaccato i computer coi manganelli in un clima da inferno”.
di Caterina Coppola (L’Ora di Palermo)
D’improvviso un urlo: “La polizia, arriva la polizia!”. È il panico. Prendiamo tavoli e sedie per sbarrare la porta del piano, mentre ci chiediamo perchè. Cerchiamo rifugio nella stanza da cui trasmette Radio Gap, che continua a mandare in diretta la cronaca di quello che succede. Nel palazzo di fronte, adibito a dormitorio, intanto comincia l’assalto. Ci affacciamo dalle finestre e vediamo centinaia di poliziotti e carabinieri, in tenuta antisommossa e con le maschere antigas, forzare il cancello del dormitorio.
Ancora un urlo: “Entrano anche qui, state calmi mantenete, la calma”. Salgono al nostro piano, il secondo, sfondano la porta ed entrano, caschi in testa, manganelli rovesciati alla mano e bandana a coprire il volto. Ci trovano con le mani alzate mentre i cronisti di Radio Gap li informano che loro continueranno a trasmettere e a raccontare. A quel punto gli agenti cambiano subito atteggiamento.
Uno di loro, sembra essere il responsabile del gruppo, dice: “Tranquilli, noi non facciamo male a nessuno. Abbiamo un’ordinanza di sgombero, ve ne dovete andare”. “Un’ordinanza di sgombero? – dice una delle croniste di Radio Gap – questo posto ce lo ha dato la Provincia, non ci potete sgomberare”.
Stessa scena al primo piano, nella stanza degli avvocati. Terminali distrutti di cui, poi, non si troveranno più gli hard disk con le banche dati e le liste dei fermati e dei dispersi. Dalle finestre vediamo le scene del rastrellamento. Gli agenti sono riusciti ad entrare nel palazzo, dopo avere aggredito gli attivisti che erano nel cortile e stavano chiacchierando o bevendo una birra. Sentiamo grida di ragazzi e ragazze aggrediti dalla polizia. Attraverso i vetri si vede tutto. I ragazzi in ginocchio picchiati a colpi di manganello, sorpresi nel sonno dall’irruzione.
Non capiamo, non ci crediamo ancora. Ognuno telefona alle persone che conosce per diffondere la voce e fare arrivare più gente possibile. Arriva Agnoletto insieme ad alcuni parlamentari. Lancia una denuncia attraverso i microfoni di Radio Gap: “Questa è un’operazione da regime – dice – è una situazione da America Latina degli anni ’70“. Cominciano ad arrivare le ambulanze. Una, due, tre autolettige. Alla fine ne avremo contate una sessantina. Altri ragazzi, una cinquantina in tutto, vengono ammanettati e caricati sulle camionette.
In strada si è radunata una piccola folla. Oltre ai giornalisti e ai parlamentari ci sono decine di attivisti che inveiscono contro le forze dell’ordine schierate. “Assassini, non vi è bastato quello che avete già fatto”? Un elicottero continua a girare sui due edifici a bassissima quota, puntando il faro sulle facce della gente radunata. D’un tratto le urla diventano assordanti. Dal dormitorio alcuni infermieri portano via un sacco nero chiuso. Sembra un sacco da obitorio. Poi un altro, uguale. La paura che, dopo Carlo, ci siano altre vittime assale tutti.
Neanche ai medici e agli avvocati del Gsf è permesso di entrare. Alle 2.10 finalmente se ne vanno. Usciamo dal palazzo del Media Center e entriamo nel dormitorio. Lo spettacolo che ci si presenta è agghiacciante. Pozze di sangue ovunque, macchie sui termosifoni, sui muri, sugli spigoli dei tavoli. “Dormivano – dice una ragazza – ci sono i sacchi a pelo e i materassini sporchi di sangue all’altezza della testa. È chiaro che sono stati picchiati mentre dormivano”. Le tracce di sangue continuano giù per le scale e su tutti i piani dell’edificio. Alcuni giornalisti dicono che dalla Questura hanno fatto sapere che i feriti sono solo dieci e che la maggior parte erano già feriti dal pomeriggio.
Ma le macchie e i grumi di sangue, ancora vivo, lasciano pochi dubbi. E poi ancora porte sfondate, vetri frantumati, gli zaini svuotati e i vestiti sparsi ovunque. Sembra una scena di un film, ma è reale. I ragazzi che sono rimasti indenni, solo perchè non erano ancora rientrati, cercano di raccogliere le proprie cose e andarsene. Al Media Center si organizza un’incontro per capire cosa fare. Arrivano i pochi rimasti allo Stadio Carlini: lì non si sentono più sicuri e chiedono ospitalità.
Alle 5, finalmente la calma, proviamo a dormire un po’, ma sarà un sonno tormentato.
(22 LUGLIO 2001; ORE 13:15)
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