Storie

Ecco cos’è successo alla Diaz, 15 anni fa, e perché ci riguarda tutti

Cosa c’entrano Genova e la Diaz con Gaypost, vi starete chiedendo. A prima vista, forse, nulla. Ma noi di Gaypost siamo convinti che i diritti civili, sociali e umani siano patrimonio di tutti e che qualsiasi violazione avvenga riguarda ognuno di noi, che ne sia direttamente coinvolto o no. Succede con la negazione dei diritti delle persone LGBT, succede con la violazione della dignità delle donne, con il diritto dei migranti ad un futuro migliore e succede, anche, con il diritto di non essere torturato e massacrato da chi sarebbe chiamato invece difendere i cittadini e solo per avere esercitato la libertà di manifestare contro qualcosa che non condivide.

Quindici anni fa, a Genova, un’intera generazione imparò che in piazza si può anche morire (sull’assassinio di Carlo Giuliani vi proponiamo questo articolo) e che i diritti civili non sono scontati. “Questa sera diritti non ce ne sono per nessuno” disse un celerino a chi, fuori da quella scuola, chiedeva spiegazioni. Ed era vero. Imparerà, negli anni successivi, che è possibile anche che nessuno paghi per avere violato quei diritti e che neanche dopo più di un decennio uno Stato è in grado di chiedere scusa e di evitare che succeda di nuovo, ad esempio introducendo il reato di tortura (la legge è bloccata al Senato che ha sospeso la discussione).

D’accordo con tutta la redazione di Gaypost, abbiamo scelto di parlarvi di quella notte riproponendovi la mia cronaca dell’epoca, scritta poche ore dopo il blitz. L’entusiasmo per questo mestiere e la convinzione che non c’è miglior testimonianza di chi le cose le vive sulla propria pelle, portarono me e Manuela a Genova nel luglio del 2001. Il risultato potete leggerlo di seguito nell’articolo originale apparso su “L’Ora” di Palermo e su “il Nuovo”.

“Io e i celerini nella scuola Diaz”

Una giornalista che era a mezzanotte all’interno della scuola Diaz di Genova racconta l’assalto al Media Center del Gsf. “Il sangue scorreva, hanno spaccato i computer coi manganelli in un clima da inferno”.
di Caterina Coppola (L’Ora di Palermo)

GENOVA – È mezzanotte, mezzanotte in punto. Siamo al Media Center del Genoa Social Forum, allestito nei locali della scuola Diaz, in via Cesare Battisti. Stiamo preparandoci per andare a dormire: la giornata è stata pesante ed abbiamo bisogno di riposare. “Ok, ragazzi – dice qualcuno – adesso è finita, domani si torna a casa”.

D’improvviso un urlo: “La polizia, arriva la polizia!”. È il panico. Prendiamo tavoli e sedie per sbarrare la porta del piano, mentre ci chiediamo perchè. Cerchiamo rifugio nella stanza da cui trasmette Radio Gap, che continua a mandare in diretta la cronaca di quello che succede. Nel palazzo di fronte, adibito a dormitorio, intanto comincia l’assalto. Ci affacciamo dalle finestre e vediamo centinaia di poliziotti e carabinieri, in tenuta antisommossa e con le maschere antigas, forzare il cancello del dormitorio.

Ancora un urlo: “Entrano anche qui, state calmi mantenete, la calma”. Salgono al nostro piano, il secondo, sfondano la porta ed entrano, caschi in testa, manganelli rovesciati alla mano e bandana a coprire il volto. Ci trovano con le mani alzate mentre i cronisti di Radio Gap li informano che loro continueranno a trasmettere e a raccontare. A quel punto gli agenti cambiano subito atteggiamento.

Uno di loro, sembra essere il responsabile del gruppo, dice: “Tranquilli, noi non facciamo male a nessuno. Abbiamo un’ordinanza di sgombero, ve ne dovete andare”. “Un’ordinanza di sgombero? – dice una delle croniste di Radio Gap – questo posto ce lo ha dato la Provincia, non ci potete sgomberare”. Al piano di sopra, quello che ospita gli operatori di Indymedia, altri agenti stanno portando via registrazioni, rullini ed altro materiale. Un colpo di manganello, secco, e si spaccano i computer.

Stessa scena al primo piano, nella stanza degli avvocati. Terminali distrutti di cui, poi, non si troveranno più gli hard disk con le banche dati e le liste dei fermati e dei dispersi. Dalle finestre vediamo le scene del rastrellamento. Gli agenti sono riusciti ad entrare nel palazzo, dopo avere aggredito gli attivisti che erano nel cortile e stavano chiacchierando o bevendo una birra. Sentiamo grida di ragazzi e ragazze aggrediti dalla polizia. Attraverso i vetri si vede tutto. I ragazzi in ginocchio picchiati a colpi di manganello, sorpresi nel sonno dall’irruzione.

Non capiamo, non ci crediamo ancora. Ognuno telefona alle persone che conosce per diffondere la voce e fare arrivare più gente possibile. Arriva Agnoletto insieme ad alcuni parlamentari. Lancia una denuncia attraverso i microfoni di Radio Gap: “Questa è un’operazione da regime – dice – è una situazione da America Latina degli anni ’70“. Cominciano ad arrivare le ambulanze. Una, due, tre autolettige. Alla fine ne avremo contate una sessantina. Altri ragazzi, una cinquantina in tutto, vengono ammanettati e caricati sulle camionette.

In strada si è radunata una piccola folla. Oltre ai giornalisti e ai parlamentari ci sono decine di attivisti che inveiscono contro le forze dell’ordine schierate. “Assassini, non vi è bastato quello che avete già fatto”? Un elicottero continua a girare sui due edifici a bassissima quota, puntando il faro sulle facce della gente radunata. D’un tratto le urla diventano assordanti. Dal dormitorio alcuni infermieri portano via un sacco nero chiuso. Sembra un sacco da obitorio. Poi un altro, uguale. La paura che, dopo Carlo, ci siano altre vittime assale tutti.

Qualche ora dopo, un medico che era in strada dirà che in realtà era un grande sacco da spazzatura, pieno, forse, di materiale sequestrato all’interno. L’assedio dura due ore e dieci minuti. Uno dei parlamentari, insieme ad Agnoletto cerca di oltrepassare lo sbarramento dei carabinieri per entrare a vedere che succede: le urla sono troppo forti. Li bloccano con gli scudi, si teme lo scontro.

Neanche ai medici e agli avvocati del Gsf è permesso di entrare. Alle 2.10 finalmente se ne vanno. Usciamo dal palazzo del Media Center e entriamo nel dormitorio. Lo spettacolo che ci si presenta è agghiacciante. Pozze di sangue ovunque, macchie sui termosifoni, sui muri, sugli spigoli dei tavoli. “Dormivano – dice una ragazza – ci sono i sacchi a pelo e i materassini sporchi di sangue all’altezza della testa. È chiaro che sono stati picchiati mentre dormivano”. Le tracce di sangue continuano giù per le scale e su tutti i piani dell’edificio. Alcuni giornalisti dicono che dalla Questura hanno fatto sapere che i feriti sono solo dieci e che la maggior parte erano già feriti dal pomeriggio.

Ma le macchie e i grumi di sangue, ancora vivo, lasciano pochi dubbi. E poi ancora porte sfondate, vetri frantumati, gli zaini svuotati e i vestiti sparsi ovunque. Sembra una scena di un film, ma è reale. I ragazzi che sono rimasti indenni, solo perchè non erano ancora rientrati, cercano di raccogliere le proprie cose e andarsene. Al Media Center si organizza un’incontro per capire cosa fare. Arrivano i pochi rimasti allo Stadio Carlini: lì non si sentono più sicuri e chiedono ospitalità.

Dormiranno nella palestra. Alcuni di noi, invece, vanno a raccogliere gli oggetti rimasti nel dormitorio. Vestiti, diari personali, lettere, saponi, spazzolini e libri, tanti libri. “Niente che lasciasse pensare a gente che andava a fare la guerra – dice Enza che ha raccolto gli oggetti – sembrano più le cose di gente che partiva per Woodstock”. Fuori dal dormitorio c’è ancora Vittorio Agnoletto. “È la rabbia del gigante Golia contro Davide che ha vinto – dice il portavoce del Genoa Social Forum – Abbiamo superato i blocchi dei treni, delle frontiere, le bombe, gli scontri in piazza e siamo anche riusciti a violare la zona rossa. Ma la nostra vittoria l’abbiamo già pagata a caro prezzo. Non importa quello che hanno portato via, la maggior parte del materiale era già in salvo. Alle 21.30 abbiamo mandato su La7 il video che mostra chiaramente le connessioni tra il Black Block e le forze dell’ordine”.

Alle 5, finalmente la calma, proviamo a dormire un po’, ma sarà un sonno tormentato.

(22 LUGLIO 2001; ORE 13:15)

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