Vogliamo parlare di patriarcato? Parliamone.
A inizio anno, a gennaio inoltrato, sono stato invitato a una festa di compleanno a Roma. Decisi allora di non prenotare l’hotel, ma prendere il primo aereo utile per tornare a casa, all’alba. Dalla fine dei festeggiamenti all’arrivo del pullman che mi avrebbe portato in aeroporto, mi sono concesso una lunga passeggiata per il centro della capitale. Certo, mi sono posto il problema che girare da solo avrebbe potuto espormi a qualche pericolo. Un furto, ad esempio. Ma la mia paura si è fermata lì.
Fossi stato una donna, l’ipotesi della rapina non sarebbe stato l’unico pericolo preventivato. Questa differenza, la possibilità di poter decidere di passare alcune ore nel silenzio della città, definisce il privilegio che hanno gli uomini. I maschi, a voler essere precisi.
È alto il clamore di chi, in questi giorni, si sta scagliando contro le parole di Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, uccisa dal suo ex compagno. Giulia Cecchettin, la centoduesima vittima di femminicidio nel nostro Paese.
Vale la pena tornare su quanto dichiarato dalla parente della vittima:
«In questi giorni ho sentito parlare di Turetta, molte persone lo hanno additato come un mostro. Ma lui mostro non è, mostro è colui che esce dai canoni normali della nostra società, ma lui è un figlio sano della della società patriarcale che è pregna della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è quell’insieme di azioni che sono volte a limitare la libertà della donna. Come controllare un telefono, essere possessivi, fare catcalling ed è una struttura di cui beneficiano tutti gli uomini. Non tutti gli uomini sono cattivi mi viene detto, si è vero, ma tutti gli uomini ne beneficiano.
Quindi tutti gli uomini devono essere attenti, magari richiamando un amico che fa catcalling a una passante o il collega che controlla la ragazza, dovete essere ostili a questi comportamento che possono sembrare banali, ma sono il preludio del femminicidio. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere, è un omicidio di Stato perché lo stato non ci tutela e non ci protegge. Bisogna prevedere un’educazione sessuale e affettiva, in modo da prevenire queste cose. Bisogna finanziare i centri antiviolenza, in modo tale che se le persone devono chiedere aiuto siano in grado di farlo. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto».
Parole fortissime che, come è già stato fatto notare in altre sedi, rompono la narrazione che si snoda sulle corde del pietismo (cosa ben diversa dalla pietà) e della pornografia del dolore. Parole che mettono in luce tre aspetti problematici, su cui è urgente intervenire: 1) sessismo e patriarcato come cultura di massa che forma la società e che crea asimmetrie di genere, di cui i maschi si avvantaggiano; 2) la totale indifferenza dello Stato rispetto a tali asimmetrie; 3) l’urgenza di un progetto educativo che riguardi in primo luogo le scuole.
È naturale che la destra si senta attaccata, sebbene le parole di Elena Cecchettin siano una condanna a una struttura sociale e non agli attori specifici che la governano. E infatti sono sguaiate, ma è la cifra culturale di chi si definisce “conservatore”, le lamentationes di chi si colloca in una certa area politica.
Tra tutti, ricordiamo gli attacchi del consigliere regionale Valdegamberi (di destra, guarda caso) che per respingere le argomentazioni della ragazza l’attacca sul modo di vestire. Atteggiamento tipico di chi, come ci ricorda Giusi Marchetta nel suo saggio Principesse (Add Editore), pretende dalle donne la recita di un copione prestabilito. Un copione che pretende innanzi tutto il silenzio al cospetto del discorso maschile. E che stabilisce un dress code per cui le donne, per essere accettabili, devono essere esteticamente rassicuranti secondo canoni prestabiliti.
Non voglio entrare nell’ambito della polemica politica, anche se molto potrebbe essere detto. Desidero concentrarmi, invece, sulle ragioni per cui molti uomini “comuni” e di vario orientamento politico – che si esprimono sui social ma anche durante i discorsi da bar – si sentono minacciati o offesi da quelle parole. In nome di un mantra molto in voga in casi come questo: not all men. Non tutti gli uomini stuprano, picchiano o discriminano le donne. Affermazione problematica, perché confonde il piano privato con quello di una responsabilità sociale.
Ovviamente il dato statistico dà ragione a quell’affermazione: intuitivamente, se ci atteniamo al dato numerico, rispetto alla popolazione globale, la percentuale di maschi che stupra e uccide è molto piccola. Sarebbe interessante, tuttavia, capire quanto crescerebbe se oltre a certi fenomeni estremi e criminali se ne contassero anche altri: dal cat calling alla violenza domestica, passando per le discriminazioni sul mondo del lavoro, le pressioni e le vessazioni all’interno della coppia, la molestia.
Il fenomeno della violenza sulle donne non si valuta sul piano del comportamento individuale, ma su quello di una “cultura” collettiva per cui certi fenomeni sono naturali o inevitabili. Laura Boldrini, nel suo recente libro Questo non è normale (Chiarelettere, 2022) ci aiuta a inquadrare la questione: «Finché continueremo a dire che il trattamento riservato alle donne è normale, perché è sempre stato così, vivremo in un paese arretrato e ipocrita, in cui le prese di posizione contro i divari di genere rimarranno solo scaramucce di facciata, buone per sistemarsi la coscienza ma destinate a non incidere, a non cambiare davvero le cose».
Se Mario Rossi nel suo privato rispetta la moglie, non fa stalking alla collega, non esprime apprezzamenti denigratori sull’aspetto fisico, non importuna sconosciute per strada, non allunga le mani e non sconfina in atti violenti e criminali, tale atteggiamento dovrebbe rientrare in un codice di comportamento che si dà per scontato. E non dovrebbe essere assunto a esempio virtuoso che deresponsabilizza da fenomeni di violenza strutturale. Il problema è, appunto, di struttura. E come tale andrebbe affrontato. In primo luogo riconoscendo il privilegio (o se si preferisce, il vantaggio) che porta persone come me (e i maschi in generale) a poter passeggiare in modo relativamente tranquillo in città, nel cuore della notte.
Per capire il piano della responsabilità collettiva, sarà utile fare altri due esempi su questioni diverse (ma non disconnesse, a ben vedere): il razzismo e l’omo-lesbo-bi-transfobia. Non tutte le persone bianche sono razziste, ma il razzismo è un problema che ha coinvolto e che interessa tutt’oggi le società bianche e occidentali. Puoi essere una persona molto empatica con migranti e rifugiatɜ politici, ma se rivolgendoti alla tua colf le dai del “tu” solo perché la sua pelle è più scura della tua, abbiamo un problema. E il problema è quello di una svalutazione dell’identità con cui si interagisce.
Puoi dire di non avere nulla contro le coppie gay o le donne lesbiche, ma se poi sorridi a una battuta che prende in giro gli omosessuali o pensi che una donna lesbica è tale perché non ha ancora trovato l’uomo giusto, ti collochi in automatico in uno schema di pensiero che privilegia un’identità su un’altra, in una gerachia di valori. Perché nessuno ride di una coppia “tradizionale” in ragione del suo orientamento sessuale. E perché nessuno dice a un maschio eterosessuale che è tale perché non ha trovato l’uomo che gli farà cambiare idea.
Sessismo, misoginia, razzismo e avversione per le persone Lgbtqia+ non sono, per altro, fenomeni disconnessi. La matrice comune è una soltanto: il patriarcato, appunto. Quel sistema di regole e consuetudini che vede nel maschio bianco, borghese, abile, eterosessuale e cristiano il perno della nostra società. Colui che ha una serie di vantaggi e privilegi che il suo status di genere gli garantisce. A discapito di tutte le categorie che esulano dalle componenti della sua identità, politica e sessuale. E, spesso, anche a discapito di chi vorrebbe privilegiare, perché è alto il prezzo da pagare in termini di performance da parte degli uomini stessi: la famosa frase “i veri maschi non piangono”, per fare un solo esempio, ci dice molto dell’amputazione emotiva che si richiede al genere maschile.
Prendere coscienza di vivere in un sistema culturale caratterizzato da asimmetrie e operare attivamente per destrutturarle, fino al loro superamento, è un processo collettivo. Un processo che, portato a compimento, renderebbe la nostra società meno violenta e più egualitaria, democratica e rispettosa di tutti gli attori sociali e umani in gioco nel palcoscenico dell’esistenza. Per fare questo, tuttavia, è necessario ammettere che esiste un piano di responsabilità sociale (e collettiva).
Che non significa dover dimostrare di essere delle persone per bene: in una società civile dovrebbe essere, appunto, un presupposto essenziale. Significa riconoscere la natura del problema e lavorare, sul piano critico in primis, per il suo definitivo superamento. Bruciando “tutto”, come ha chiesto la sorella di Giulia. Dove quel “tutto” è un sistema – il patriarcato – che continua ad agire indisturbato. E che arma le mani di chi poi compie atti come quelli per cui inorridiamo. Ipocritamente, se poi lasciamo che il sistema resti tale.
La famiglie sono tutte diverse. I diritti, invece, devono essere tutti uguali. E' questo il…
La notizia è di pochi minuti fa: Torino ospiterà l'Europride a giugno del 2027. Per…
Una bufala che sta circolando, durante queste Olimpiadi, è quella del “not a dude”. Stanno…
Ammetto che ieri guardavo un po’ distrattamente la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi a Parigi. Sono…
Il comune di Catania nega la carriera alias alle persone transgender e non binarie della…
Ce lo ricordiamo tutti, Ignazio Marino, allora sindaco di Roma, che trascrive pubblicamente 16 matrimoni…