La Convenzione di Istanbul è una trattato internazionale contro la violenza sulle donne e la violenza domestica: è stata approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel 2011 e aperta alla firma a Istanbul. È stata firmata da 45 Paesi.
Ma, cosa significa “uscire dalla Convenzione”? Cosa accadrà in Turchia, Paese che si è chiamato ufficialmente fuori?
La Convenzione di Istanbul è stato “il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza” ed è incentrata sulla prevenzione della violenza domestica, sulla protezione delle vittime e sulla persecuzione dei trasgressori. Teniamo presente che uscendo dalla Convenzione questi tre assi cascano come una torre bombardata.
Non solo la Convenzione caratterizza la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani, ma sopratutto come una forma di discriminazione dando una prima importantissima definizione politica del termine “genere” descrivendolo come “ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”.
Le conseguenze per milioni di donne, per le soggettività Lgbt+ e per tutto l’apparato di sostegno alle vittime di violenza sessuale e domestica saranno innumerevoli: politiche, sociali e psicologiche. Il ritiro dalla Convenzione in Turchia rende possibile demonizzare ciò che in milioni desiderano: l’uguaglianza di genere. Come? Attraverso la manipolazione psicologica che un atto radicale come questo riesce a compiere, stabilendo l’esistenza di un’unica famiglia, quella “tradizionale” ed eliminando leggi che difendono i diritti di tutte e tutti.
Per esempio, i reati previsti dalla Convenzione e quindi perseguibili dai Paesi firmatari sono: la violenza psicologica (art. 33); gli atti persecutori – stalking (art. 34); la violenza fisica (art. 35), la violenza sessuale, compreso lo stupro (art. 36); il matrimonio forzato (art. 37); le mutilazioni genitali femminili (art. 38), l’aborto forzato e la sterilizzazione forzata (art. 39); le molestie sessuali (art. 40).
La donna smette di essere oggetto con l’articolo che prende di mira i crimini commessi in nome del cosiddetto “onore” (art. 42). La Turchia, ripetiamo, è uscita dalla Convenzione, andando verso il mondo distopico del romanzo diventato serie tv “Il racconto dell’Ancella“.
Erdogan ha firmato il decreto che ha sancito l’abbandono della Convenzione il 20 marzo dando via a numerose proteste partecipatissime da associazioni per i diritti delle donne, comunità Lgbt+, le Ong e i partiti di opposizione i quali hanno anche presentato ricorso in Consiglio di Stato.
La decisione di recedere dalla Convenzione di Istanbul è stata presa senza alcun dibattito in Parlamento: i gruppi conservatori della Turchia ne hanno sempre contrastato l’applicazione perché ritengono che indebolisca la famiglia, incrementi i divorzi e favorisca le rivendicazioni della comunità Lgbt+.
Chi osteggia la Convenzione di Instanbul lo fa spiegando che il reale scopo del documento non sia affatto la tutela delle donne ma la propaganda dell’ideologia gender oltre che un vero e proprio attacco ai valori tradizionali della famiglia.
Perché prima firmano e poi escono? Perché era arrivato il momento di dimostrare che punivano sul serio la violenza di genere: nel 2019 il Parlamento europeo ha chiesto a tutti gli Stati membri di aderire al trattato, esortando i firmatari a ratificare.
Ratificare la convenzione vuol dire essere giuridicamente vincolati alle sue disposizioni e far seguire norme volte a prevenire la violenza di genere, proteggere le vittime e punire i responsabili.
L’’Ungheria, dopo aver cancellato “Billy Elliot” ha già rifiutato di ratificare il trattato e la Polonia, dopo aver ratificato la Convenzione nel 2015, ha invece avviato il processo formale di ritiro dal trattato.
Sulla cara Wikipedia trovi più info sulla Convenzione di Instanbul.
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