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Tra chem sex e Hiv: il problema è la “solitudine gay” o l’omofobia sociale?

L’articolo di Claudio Rossi Marcelli su Internazionale, intitolato “L’epidemia della solitudine gay”, ha aperto un dibattito molto vivace e anche decisamente polemico all’interno della nostra comunità. In esso si denuncia «l’attenzione morbosa per il comportamento sessuale degli omosessuali» come approccio da evitare. Mi domando, tuttavia, se questo contributo superi tale impostazione o se rischia di avallarla, nonostante le buone intenzioni dell’autore. Al fine di arricchire il dibattito, cercherò di fornire ulteriori spunti di riflessione.

Le critiche costruttive

Il pezzo è condivisibile in diversi punti come la critica a certi servizi televisivi, già altrove denunciati. Giusto ammettere che esistono specifici problemi interni alla nostra comunità (magari per affrontarli e risolverli, evitando di pensare che siano esclusivi della stessa). Condivisibile, ancora, la critica all’imborghesimento della gay community, troppo impegnata a concentrarsi sul tema dei diritti, lasciando da parte l’analisi sulla sessualità, confinata negli angusti spazi della valutazione – o condanna – morale che ci impedisce di avere strumenti critici di fronte a certi attacchi (si veda Le iene). “Se agisci in modo responsabile non c’è nulla di male a essere promiscuo” dovrebbe essere il mantra su cui costruire una strategia culturale di comunità. Ok, benissimo. Ma poi?

Quando la solitudine è “gay”

Poi emergono alcune profonde criticità dell’articolo stesso. A cominciare dal titolo: quando leggiamo realizzazioni quali “ricatto gay” o omicidio consumato nel solito, torbido “ambiente omosessuale” la cosa ci porta a storcere il naso. “Solitudine gay” segue quell’esatto tipo di generalizzazione fuorviante. Se l’associamo poi a “epidemia”, non c’è anche il rischio di rendere il tutto largamente patologizzante? Certo, mi si può obiettare che quello potrebbe essere una sbavatura del titolista. Peccato che la stessa locuzione venga riutilizzata, anche non virgolettata, dall’autore stesso che di fatto l’avalla.

Si stava meglio quando si stava peggio?

Nell’articolo, ad un certo punto, si legge: «Nella popolazione omosessuale maschile tossicodipendenza, depressione, suicidio e dipendenza da sesso sono ai livelli più alti di sempre. E allora viene da chiederci: stiamo davvero meglio di prima?». Sarebbe stato il caso di essere più precisi, riportando i dati a confronto. Così posto, invece, si lega l’orientamento sessuale alla devianza quasi in automatico. Ed emerge una domanda retorica la cui risposta sembrerebbe: no, non stiamo meglio di prima. Chiederei a Rossi Marcelli se pensa davvero che “si stava meglio quando si stava peggio”. Il progressivo miglioramento della nostra condizione c’è, tra diritti riconosciuti e denuncia dello stigma sociale, rispetto a un tempo dove il pensiero omofobo era considerato una forma di opinione. Il disconoscimento dei vantaggi è per altro tipica strategia retorica dei movimenti antigay, per sottolinearne l’irrilevanza. Perché prestare il fianco?

Il disagio si annida nell’orientamento sessuale?

Arriva quindi il “supporto” della scienza: «A seconda degli studi» scrive Rossi Marcelli riportando Hobbes «le persone gay sono tra le due e le dieci volte più propense al suicidio rispetto agli eterosessuali. Abbiamo il doppio delle possibilità di soffrire di un grave episodio depressivo e» continua ancora «un sondaggio tra la popolazione gay di New York ha rivelato che tre quarti di loro hanno sofferto di ansia o depressione, dipendenza da droghe e alcol o praticavano sesso non protetto. Inoltre gli uomini gay hanno meno amici rispetto agli etero o le lesbiche». Così costruito, l’articolo, sembra dar ragione a chi pensa che il disagio si annidi nell’omosessualità del soggetto e non in cause esterne. E fa di New York una sorta di specchio del mondo. Quando forse ne è un unicum. Gay inclusi.

Minority stress come eventualità?

A onor del vero, le cause di tali fenomeni vengono fornite, ma solo dopo. Quando si parla di minority stress. La costruzione dell’articolo, tuttavia, sembra porre il focus su una “natura gay” quasi predisposta a cadere nelle trappole della tossicodipendenza o della dipendenza da sesso compulsivo, solo se determinati fenomeni subentrano come effetti catalizzatori. Quando, forse, sarebbe stata più esatta una ricostruzione per cui un certo contesto sociale non benevolo verso le persone Lgbt porta a quello “stress” che può avere come conseguenza determinati problemi. Le mie perplessità sono, si badi, sulla scansione tematica del pezzo, per cui i nuclei informativi restituiscono una narrazione che va a discapito della nostra comunità, che rischia ancora una volta di essere appiattita come attore sociale deviante. Approccio che si voleva evitare, ma che si ripropone a ben vedere.

I giovani gay sono belli e sensibili

Altri punti critici: il coming out sembrerebbe un’altra delle cause del minority stress. Ma è fare coming out il problema o è il contesto a renderlo problematico? E siamo sicuri che un’identità “velata” non porti a quel degrado invece proiettato in modo generalizzante a chi cerca di risolversi? E ancora, «la compensazione» rispetto alla non accettazione sociale «spinge gli adolescenti gay a diventare più sensibili, più ironici, più belli, più raffinati […] in una disperata ricerca di essere accettati. Ma il disprezzo di sé resta sommerso dentro di loro». Se gli stessi argomenti, così posti, li avesse usati un politico omofobo, staremmo davvero ad applaudire a questo castello di generalizzazioni? Siamo sicuri che tale descrizione valga per tutti gli adolescenti gay? Potrebbe essere una descrizione delle realtà che vivono i più giovani in realtà come Tor Bella Monaca a Roma, o in piccoli centri nella provincia di Milano o Palermo?

Il destino dell’infelicità

E si continua, ancora, con quello che sembra essere una sorta di destino all’infelicità: «Anche se poi il coming out andrà bene, la società si dimostrerà accogliente e i genitori continueranno ad amarli, il senso di vergogna e di rabbia si riaffaccia più avanti nella vita e, se non viene adeguatamente gestito, finisce per spingere un gran numero di uomini verso un malessere profondo e comportamenti autodistruttivi». Ma anche qui: siamo sicuri che questa sia una “legge” dell’essere gay? Pare che l’autore indulga in una sorta di determinismo omosessuale, per cui l’orientamento predisponga a una potenziale forma di autodistruzione indotta. Poi se sei fortunato, non ti accade nulla. Ma se avvengono fatti catalizzatori, il tuo destino si compie.

Meglio un linguaggio più rigoroso

Il discorso è lungo e pure molto complesso e merita un maggiore approfondimento. Tralascio ingenuità quali la dicitura “matrimonio gay” – che può andar bene se lo scrive Repubblica (e comunque no, non va bene), ma da un intellettuale e sulle colonne de L’Internazionale ci si aspetta scelte linguistiche più rigorose – ma la sensazione dominante è quella di aver perso un’ottima occasione per fare quel dibattito serio che lo stesso Rossi Marcelli si auspica. «La mappa delle notti gay senza limiti non aiuta nessuno» esattamente nella misura in cui non aiutano quegli articoli in cui si fanno le pericolose generalizzazioni che possiamo leggere in quel pezzo.

Un dibattito sul “malessere omosessuale” o sulle cause del malessere?

Io non so se  è corretto scrivere che «è arrivato il momento di aprire una seria discussione sul malessere degli omosessuali e sulla tutela della loro sanità mentale». Forse andava detto che è urgente aprire una discussione seria sulle cause del malessere che la società omofoba induce a quelle persone omosessuali più fragili, per la tutela della loro sanità mentale. Non so voi, a me suona profondamente diverso. «Il vero problema non sono le orge e i festini» e su questo non si può che concordare. Ma se si arriva a teorizzare che tutto nasce dall’«epidemia della solitudine gay» il vero problema sembra essere un altro: l’eventualità di un destino patologizzante e potenzialmente disastroso per un’intera comunità. E questo non solo non è un antidoto, ma sembra giustificare a posteriori quelle letture che fanno Le Iene e personaggi ben noti alla nostra comunità per la loro omofobia.

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