L’articolo di Claudio Rossi Marcelli su Internazionale, intitolato “L’epidemia della solitudine gay”, ha aperto un dibattito molto vivace e anche decisamente polemico all’interno della nostra comunità. In esso si denuncia «l’attenzione morbosa per il comportamento sessuale degli omosessuali» come approccio da evitare. Mi domando, tuttavia, se questo contributo superi tale impostazione o se rischia di avallarla, nonostante le buone intenzioni dell’autore. Al fine di arricchire il dibattito, cercherò di fornire ulteriori spunti di riflessione.
Poi emergono alcune profonde criticità dell’articolo stesso. A cominciare dal titolo: quando leggiamo realizzazioni quali “ricatto gay” o omicidio consumato nel solito, torbido “ambiente omosessuale” la cosa ci porta a storcere il naso. “Solitudine gay” segue quell’esatto tipo di generalizzazione fuorviante. Se l’associamo poi a “epidemia”, non c’è anche il rischio di rendere il tutto largamente patologizzante? Certo, mi si può obiettare che quello potrebbe essere una sbavatura del titolista. Peccato che la stessa locuzione venga riutilizzata, anche non virgolettata, dall’autore stesso che di fatto l’avalla.
Arriva quindi il “supporto” della scienza: «A seconda degli studi» scrive Rossi Marcelli riportando Hobbes «le persone gay sono tra le due e le dieci volte più propense al suicidio rispetto agli eterosessuali. Abbiamo il doppio delle possibilità di soffrire di un grave episodio depressivo e» continua ancora «un sondaggio tra la popolazione gay di New York ha rivelato che tre quarti di loro hanno sofferto di ansia o depressione, dipendenza da droghe e alcol o praticavano sesso non protetto. Inoltre gli uomini gay hanno meno amici rispetto agli etero o le lesbiche». Così costruito, l’articolo, sembra dar ragione a chi pensa che il disagio si annidi nell’omosessualità del soggetto e non in cause esterne. E fa di New York una sorta di specchio del mondo. Quando forse ne è un unicum. Gay inclusi.
Altri punti critici: il coming out sembrerebbe un’altra delle cause del minority stress. Ma è fare coming out il problema o è il contesto a renderlo problematico? E siamo sicuri che un’identità “velata” non porti a quel degrado invece proiettato in modo generalizzante a chi cerca di risolversi? E ancora, «la compensazione» rispetto alla non accettazione sociale «spinge gli adolescenti gay a diventare più sensibili, più ironici, più belli, più raffinati […] in una disperata ricerca di essere accettati. Ma il disprezzo di sé resta sommerso dentro di loro». Se gli stessi argomenti, così posti, li avesse usati un politico omofobo, staremmo davvero ad applaudire a questo castello di generalizzazioni? Siamo sicuri che tale descrizione valga per tutti gli adolescenti gay? Potrebbe essere una descrizione delle realtà che vivono i più giovani in realtà come Tor Bella Monaca a Roma, o in piccoli centri nella provincia di Milano o Palermo?
Il discorso è lungo e pure molto complesso e merita un maggiore approfondimento. Tralascio ingenuità quali la dicitura “matrimonio gay” – che può andar bene se lo scrive Repubblica (e comunque no, non va bene), ma da un intellettuale e sulle colonne de L’Internazionale ci si aspetta scelte linguistiche più rigorose – ma la sensazione dominante è quella di aver perso un’ottima occasione per fare quel dibattito serio che lo stesso Rossi Marcelli si auspica. «La mappa delle notti gay senza limiti non aiuta nessuno» esattamente nella misura in cui non aiutano quegli articoli in cui si fanno le pericolose generalizzazioni che possiamo leggere in quel pezzo.
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