La mia infanzia, un tempo, morì «et ego vivo» scrive Sant’Agostino, alla fine del IV secolo, in un passo delle sue Confessiones. «L’infanzia è invecchiata e poi morta; ora hai intorno la seconda vita» scrive Nadia Terranova in Come una storia d’amore, raccolta di racconti pubblicata a febbraio 2020 da Perrone Editore. A distanza di secoli, queste parole ritagliano i contorni di una sensazione che appartiene all’uomo da sempre. Tutti l’abbiamo provata, magari senza accorgercene. È il senso della mutazione. La fine di una stagione. Una vertigine leggera.
Nadia Terranova, autrice dell’amatissimo Gli anni al contrario (Einaudi, 2015), finalista nel 2019 al Premio Strega con Addio Fantasmi (Einaudi, 2018), vive a Roma ma è nata a Messina. Il suo è uno sguardo isolano, caratterizzato da quella lucidità che è tipica di chi ha guardato il continente da lontano prima di immergervisi. È la luce degli occhi che si aprono – nerissimi – all’ultima pagina de Gli anni al contrario.
Il racconto in cui compare questo personaggio, Via della Devozione, è dedicato a Andrea Oliviero, la giovane transessuale senzatetto che, nel luglio 2013, era stata massacrata al binario 10 della stazione Termini. Qui le parole di Terranova scavalcano i confini della fiction, si nutrono di una personale indignazione, e si fanno memoria per tutti noi. Via della Devozione è più di un semplice racconto: è un gesto politico, una forma di risarcimento per Andrea Oliviero, per quei suoi ventotto anni di vita ai margini, per le polemiche divampate dopo la sua morte, per quell’intervista rilasciata poco prima dell’omicidio in cui la ragazza appariva sorridente ma spaventata, quasi presentisse ciò che le sarebbe accaduto.
In Come una storia d’amore il personaggio di Andrea, nato in corpo straniero, rappresenta il massimo esempio di disappartenenza. Quando ancora era uomo, quella voce rivelava la sua autentica natura: «Glielo dicevano a Bogotà, fermavano sua madre per strada, a scuola, dappertutto: signora, suo figlio ha una voce che è una musica, una voce che non pare sua. Una voce da femmina, pensavano Andrea e sua madre senza bisogno di dirselo. Da grande non è più un problema. Da quando Andrea è diventato una donna».
In molte figure della raccolta, infatti, il sentimento della fine declina in un senso di sradicamento. Pensiamo al disorientamento della signora Teresa in Via della Devozione o alla protagonista de L’ora di libertà, seduta al tavolino di un bar, la sera della vigilia di Natale: da qui la donna osserva lo sciabordare della vita e si interroga sul senso di estraneità che prova all’interno della sua stessa famiglia, murata com’è in convenzioni ereditate. E quale sentimento è più vicino all’esperienza di una persona Lgbtqi+?
Ma la vera protagonista di Come una storia d’amore è Roma con i suoi quartieri, le sue strade tentacolari: «Ora hai intorno la seconda vita – dicevamo all’inizio – e la città, quella che è diventata la tua». Il senso di sradicamento è collocato proprio lì, tra via Casilina e piazza dei Sanniti, tra le scanalature del bugnato di Porta Maggiore e via del Portico d’Ottavia.
Nell’ultimo testo, Lettera a R., questo sentimento si iscrive specificamente nel rapporto che la protagonista intrattiene con Roma. È un demone urbano il suo, l’inquietudine – tutta novecentesca – di quelli che non stanno «sicuri di casa». «L’unica è raccontarsela come una storia d’amore»: a tale conclusione giunge la donna di Lettera a R. che quindici anni prima aveva dato ascolto al richiamo di Roma, scegliendola come sua casa. Forse aveva riconosciuto in quella voce un suono familiare, proprio come accade – misteriosamente – all’inizio di ogni storia d’amore, quando ci si lancia alla ricerca della propria infanzia (immaginata). «I hear you call my name / and it feels like home», del resto, cantava Madonna nel 1989, superando quel senso di solitudine assiderata: «Life is a mystery / everyone must stand alone».
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