È una giornata di libertà, il coming out day. E di liberazione. Una sorta di “25 aprile” della coscienza, che si affranca dalla tirannide di una narrazione che non ci prevedeva. Il coming out rappresenta un confine nettissimo nella vita di chi lo fa. Sia esso in famiglia, nel luogo di lavoro o tra le proprie amicizie. Un limite tra verità e finzione. Essere ciò che si è, nel profondo: costi quel che costi. Oppure recitare dietro una maschera che, pirandellianamente parlando, ci è stata assegnata per quieto vivere, ma che ci fa annaspare in un’inquietudine profonda. Perché viviamo al di fuori dell’unico baricentro possibile, traballando continuamente. E quel baricentro è, appunto, la parte più vera di noi.
«Il mio coming-out è avvenuto dopo almeno due anni di “glielo dico lunedì”» dichiara a Gaypost.it Daniele Gattano. «Quando ho capito che quel lunedì non ci sarebbe mai stato ho optato per l’outing: mi sono confidato con mio cugino, che l’ha detto a mia zia, che l’ha detto a mia mamma che l’ha detto a mio papà. In pratica io non ho fatto nulla. È andata bene così. Ognuno deve trovare il modo e il tempo giusto per farlo, senza pressioni esterne». Affronta il tema con la sua solita leggerezza e con quel fare un po’ sornione e irriverente. Ma dice anche cose di un certo buon senso, l’attore che abbiamo imparato ad amare a Colorado e che nel 2021 abbiamo ritrovato ne Il salotto con Michela Giraud.
«Il messaggio che più ricorre oggi è quello di: “fate coming-out!”, che sottoscrivo» dichiara ancora Gattano. Che avverte, però: Il coming out day non deve diventare un semplice slogan che non tiene conto delle dinamiche familiari di ogni individuo. C’è stato un ragazzo che mi ha chiesto consigli rivelandomi che entrambi i genitori erano simpatizzanti di Putin. Ecco, lì ho tentennato». Il disvelamento di sé, infatti, non sempre porta agli effetti sperati. Soprattutto quando in famiglia i genitori possono essere ostili. Ed è la famiglia che, secondo il comico, dovrebbe avere un ruolo fondamentale in questo processo di verità.
«Sicuramente dire “fate coming-out!” sarebbe più facile, se oggi potessimo contare anche su quella famosa legge ormai parcheggiata da anni e che ha riempito i palmi delle mani di migliaia di persone» dice ancora, rievocando quanto c’è ancora da fare sul ddl Zan. «Oltre al fatto che la giornata mondiale del coming out potrebbe essere da input non solo per i figli che vogliono rivelarsi, ma anche per i genitori. Non c’è scritto da nessuna parte che il peso del confronto debba partire dai figli. Sarebbe bene che i genitori – che spesso poi si trovano a dirti: “lo avevo già capito” – intavolassero loro per primi il discorso. A me avrebbe aiutato tantissimo».
Il disvelamento con la famiglia può essere un ostacolo. Psicologico, in primis. Andrea Russo, giovane attivista sardo che ha fondato l’associazione Sardinian People for the Queer Revolution APS (di cui è anche presidente) racconta come è andata prima con sua madre, a cui ha scritto una serie di messaggi, e poi con il padre che è un rappresentante delle forze dell’ordine. «Mio padre lesse uno dei messaggi che avevo scritto a mia madre. Entrò in camera mia e si sedette sul letto. Iniziò a farmi molte domande. Per deformazione professionale, credo. E iniziò un interrogatorio tanto lungo quanto inefficiente. Mi chiese più volte se fossi sicuro che mi piacessero i ragazzi. Insomma, come chiedere al Papa se crede in Dio».
E continua, Andrea: «Al termine mi aspettavo le botte, invece arrivarono le regole: non dovevo portare a casa drogati, alcolizzati, mantenuti. Voleva preservarmi. Ma ricordo, soprattutto che mi disse le parole più importanti: “Non portare nessuno che ti faccia soffrire, se non ne vale realmente la pena“». E si torna a quel confine. Tra un prima e un dopo che fa la differenza: «Da quel momento iniziai a vivere la mia vita molto più tranquillamente. Alla luce del sole. Non dovermi più nascondere e avere una famiglia che mi ama incondizionatamente è il dono più prezioso che la vita potesse farmi». L’ultimo coming out, Andrea, lo ha fatto con sua nonna: «Gli ho presentato il mio ragazzo, inizialmente come “un amico”. Ma lei ha capito tutto: “Guarda che non sono scema” mi ha detto. “Vecchia e smemorata, ma non scema”. Ora stravede per Flavio».
Antonia è un’insegnante e un’attivista Lgbt+. Vive in Piemonte, con la sua famiglia. «Non è mia abitudine entrare in aula e definirmi lesbica, così come i miei colleghi non si definiscono etero. Ma non nascondo nulla, anzi». Sul lavoro il suo coming out, mi confessa, è avvenuto con le colleghe. «Alcune lo avevano già intuito. Per il resto vivo semplicemente la mia vita alla luce del sole. Alcuni genitori dei mie alunni intuiscono da ciò che pubblico su Facebook. In ogni caso le cose sono cambiate positivamente coi colleghi perché parlo liberamente della mia vita privata con loro, mentre prima non potevo farlo completamente ed era abbastanza frustrante».
Il coming out di Antonia è avvenuto in età adulta: «Probabilmente anche per questo è stato accolto con molta naturalezza. Durante la mia adolescenza ho fatto la “diversamente etero” per molto tempo. Ho soppresso una parte di me, sublimandola con mille altre cose. Forse ho evitato drammi familiari, bullismo e persecuzioni varie, ma a volte rimpiango di non essere stata completamente me stessa fin da subito». Quell’interezza alla fine è arrivata e coincide con l’immagine che ha di se stessa. E mi confida un suo piccolo, grande segreto, Antonia: «Ho manifestato e lottato per qualunque cosa, nella mia vita. Sono stata un’attivista di Greenpeace, ho manifestato contro il fascismo, contro Berlusconi, per l’articolo 18. Ero pure al G8 di Genova, quando è stato ucciso Carlo Giuliani. Ma quando ho partecipato al mio primo Pride di Torino fu una sensazione bellissima. Di liberazione. Una grande festa!»
Il coming out ha bisogno dei propri tempi, si diceva prima. E quel tempo è sempre personale. E non sempre è facile disvelarsi, al lavoro come a casa. È il caso di Laura, che vive nelle Marche e che ancora non si sente pronta a dirlo a tutte le persone con cui lavora. «In passato ho lavorato in posti in cui ho potuto dire di me serenamente ed è stata una cosa molto bella. Nel contesto in cui lavoro adesso, però ho fatto solo in parte coming out. Solo con alcuni colleghi. È un tema molto delicato per me. Devo capire qual è il confine in cui potrebbero nascere problemi». I capi di Laura sono di destra, per cominciare. E lei non si fida. «E poi c’è il contesto… voglio evitare le battutine e le facili risate che ho sentito nel luogo in cui lavoro. Non volevo che mi toccassero. Che toccassero la mia vita».
Con i colleghi con cui si è potuta confidare va tutto molto bene. «Soprattutto con le persone più giovani. Le vedo più tranquille, più smart. Certo, mi fa molto arrabbiare non poter parlare di me, la vivo come una menomazione. E forse, penso, è un riflesso di quell’omofobia interiorizzata che ancora sta dentro me e mi impedisce di parlarne liberamente. Ma al lavoro può essere difficile. Soprattutto in un’azienda privata. Spero di passare presto nel pubblico, per poter avere più tutele. E uscire da questa zona grigia». Poi però, quando parla delle persone che l’hanno accolta, il tono delle parole di F.M. diventa più allegro. Più felice. «Nel momento in cui l’ho detto, mi sono sorpresa. Perché ho capito che ero io ad aver più paura di loro. Credo che dipenda anche dalla stima reciproca. Mi conoscono per come sono e per come lavoro. E mi hanno accolta nel modo più naturale possibile».
E proprio a tal proposito, ovvero l’impossibilità di dichiararsi in alcune circostanze, interviene Natascia Maesi. Membro della dirigenza nazionale di Arcigay e responsabile per le politiche di genere e la formazione, dichiara: «Il coming out nel nostro Paese è ancora un atto politico necessario e una dichiarazione di felicità che fa paura. Dichiararsi ti cambia la vita. A volte ti trasforma in bersaglio della discriminazione altre volte ti libera dalle catene e ti fa scudo. Tutte le persone dovrebbero sentirsi libere di farlo, senza subire conseguenze, perché in un Paese liberato dall’omo-bi-lesbo-transafobia, il coming out non può più essere un privilegio di pochi».
«Cos’è per me il coming out? È sempre stata una questione di libertà». Non ha dubbi, a tal proposito, Erica Donzella. Scrittrice e editor, il suo è un disvelamento che si basa più sul suo incedere nel mondo che sulle parole. Parole che pur sono venute, ma in un’altra forma. Quella della poesia, nella sua raccolta Quando cadranno i rumori, dove le grammatiche sentimentali che agitano il suo profondo vengono analizzate con grande perizia.
«È la libertà nel calciare un pallone oltre un insulto, nel vivere mano nella mano a vent’anni un primo amore». Donzella non ha avuto bisogni di proclami, di annunci, rivela a Gaypost.it: «Sono “venuta fuori” dall’armadio per come ero, oltre ogni vocio e sguardo perplesso. Ho detto di amare le donne semplicemente vivendo, senza chiedere permesso. E non dovrebbe chiederlo nessuno».
E in questo incedere, tra un prima e un dopo, emerge il fluire delle nostre esistenze. Il coming out per una parte della nostra comunità ha rappresentato e rappresenta una cesura formidabile, nell’arco della vita. Invece, come si è letto in alcune delle testimonianze riportate, il disvelarsi si è sempre accompagnato con la quotidianità, coincidendo con un’evoluzione più che con un’inversione di tendenza. Quale che sia la tua storia, tuttavia, la cosa importante è che tu possa raccontarla. A tutto il mondo o a parte di esso. Ma sempre a testa alta. Il significato profondo del coming out day, a ben vedere, è proprio questo.
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