Premessa n. 1: quando entro in una delle mie classi, per la prima volta, non faccio coming out. Non dico, cioè, “salve, sono il vostro prof di italiano e sono gay”. E non lo faccio per pudore, convenienza o timore di attirare le critiche sullo spettro del “gender”, che sarei in grado di portare in aula per il semplice fatto di esistere (voi ridete e scherzate, ma è già successo e almeno in un paio di occasioni). Non lo faccio semplicemente perché i miei colleghi e le mie colleghe eterosessuali non lo fanno. Non ne sentono l’esigenza, perché sono già previsti (conosco l’obiezione). E infatti, se viene a galla l’argomento, non lo nascondo. Né davanti allievi e allieve, né ai colloqui di lavoro (e credetemi, la cosa non è così pacifica come potrebbe sembrare).
Premessa n. 2: tanto tanto tempo fa, conobbi un ragazzo che frequentava l’ambiente Lgbt+ in cui bazzicavo anch’io. Tra locali, associazioni, eventi e pride, ogni tanto lo vedevi lì. Si definiva eterosessuale, era solidale. Non aveva timore a farsi vedere con altri ragazzi gay – sì, lo so, è una cosa che non si dovrebbe nemmeno puntualizzare, ma andatelo a dire ai vari MxM che non ti incontrano perché sei visibile e poi la gente pensa che anche loro sono gay, se vi vedono insieme – e a modo suo supportava la causa. Fino a quando ha ammesso di provare attrazione anche per i maschi. Tempo dopo. Ovvero, quando è stato il momento giusto. Si diceva, di lui, che fosse una velata. E che finalmente la fortezza era stata espugnata. Io invece credo che stesse semplicemente vivendo la sua vita. Magari cercando di capire cosa stesse accadendo al suo interno. Magari prendendo le misure e dandosi le risposte che cercava.
E ora veniamo al dunque: le parole di Elly Schlein da Daria Bignardi hanno generato un coro di reazioni, dentro e fuori la comunità Lgbt+, che definire fuori misura è riduttivo. Perché sì, io capisco anche le ragioni di chi dice che – nel 2020 – dichiarare il proprio orientamento sessuale non dovrebbe più essere una notizia. E che dunque, non bisognerebbe dare poi così importanza alla confessione fatta dall’esponente emiliano-romagnola. Eppure, proprio perché varie e diverse sono state tali reazioni, possiamo prendere atto del fatto che i coming out fanno ancora rumore. Mediatico e non solo. E che, dunque, è importante che un personaggio pubblico si sveli.
Non siamo una repubblica davvero laica: non lo siamo nella misura in cui per approvare leggi blande, come quella sulle unioni civili e quella regionale – e proprio dell’Emilia Romagna– contro l’omo-transfobia, bisogna passare per le forche caudine del voto cattolico, ritenuto indispensabile anche da fior di attivisti che poi, con quei cattolici (dem e non solo) ci scendono a patti, snaturando il senso di intere battaglie. Non leggi, dunque, per liberare la nostra comunità e dare piena dignità alle persone Lgbt+, ma mediazioni per mandare i Paruolo e le Fattorini di turno a casa con la coscienza a posto, sul fatto che l’apostrofo porpora-cardinalizio tra le parole “s’accontentino” (del contentino) è il frutto proprio del loro mettere i bastoni tra le ruote nella macchina legislativa.
Siccome le uniche leggi che abbiamo le ha “concesse” il centro-sinistra – con modi e forme molto discutibili, ma prendiamo atto della realtà – è bene dunque che la vice-presidente dell’Emilia Romagna, la regione in cui si è consumato l’ultimo atto delle solite mediazioni al ribasso, faccia coming out. Sia per le reazioni che ciò può determinare tra gli altri esponenti di quella “sinistra”, sia per le ricadute culturali, sia per una questione di onestà con l’elettorato tutto. E questa è una questione di buon senso istituzionale. Forse “estorta” da Daria Bignardi, ma Elly Schlein poteva benissimo mentire o divagare. Invece è stata sincera. Già solo per questo bisognerebbe guardare al tutto con occhio non dico benevolo, ma almeno meno polemico. E invece…
Invece, fuori dal mondo Lgbt+, si legge di tutto. Dal “chissenefrega” assurto ad argomento di punta di chi argomenti non sembra averne, alle più ardue peripezie interpretative da parte di soggetti che parlano – non si sa bene a quale titolo – di questioni Lgbt+. Si pensi ad Antonella Boralevi che dalla Stampa ci fa sapere che quando si è soli ti metti praticamente con chiunque ti passa davanti (e complimenti per ricalcare lo stereotipo che le persone non conformi alla norma eterosessuale sono o sole, o promiscue, o entrambe le cose). O a Michele Fusco, già cronista sportivo per Il Giorno – dove evidentemente oltre a parlare di calcio si fanno raffinate analisi sulla questione Lgbt+, non basate sulle barzellette da spogliatoio sui gay, si spera – che su Gli stati generali paventa il pericolo che un giorno le donne staranno solo con le donne «e i maschi? Cazzi loro».
A queste persone si controbatte facilmente. L’unica risposta possibile, per quel che mi riguarda, è la seguente: è meraviglioso vedere quelli del “ma saranno fatti suoi, che bisogno c’è di dirlo” cadere poi nel paradosso di farsi quei fatti su cui, apparentemente, solo chi li vive in prima persona dovrebbe avere l’ultima parola. Dunque, in buona sostanza, se sono fatti suoi sarà lei – Elly Schlein, cioè – a decidere se e come rispondere. E prima di depositare la propria opinione non richiesta (e pure apparentemente ignorante e intrisa di pregiudizi), sarebbe il caso di avere contezza della “cosa” di cui si sta parlando. E non sembra il caso di quanti e quante hanno sentito l’urgenza di dire la loro.
E quindi arriviamo alle dolenti note: le critiche dentro la comunità. Si possono leggere obiezioni per cui, nell’ordine:
Critiche da rimandare al mittente per una serie di ragioni: innanzi tutto, perché non esiste il manuale del coming out perfetto. Anzi, non esiste proprio il coming out perfetto. Il momento giusto in cui dichiarare se stessi/e è il momento in cui arriva. E dovremmo sempre rispettare le cosiddette distanze di sicurezza, quando entriamo nella vita delle altre persone.
La parabola politica di Elly Schlein non è quella di chi ha giocato da sempre sull’indeterminato e il non detto, salvo poi beneficiare delle conquiste ottenute da altri o attaccare la nostra comunità e le nostre conquiste (il parterre di personaggi pubblici che si sono macchiati di questo modus operandi è abbastanza vasto, per cui eviterò di fare nomi). Schlein si è schierata con noi e con le nostre battaglie. Forse ha solo ritenuto, di fronte alla domanda di Daria Bignardi, che quello fosse il momento giusto per dire di sé. O forse, come i suoi colleghi eterosessuali, non ha ritenuto opportuno mettere di fronte alle sue capacità politiche la sua identità, non nascondendosi quando le circostanze lo hanno richiesto.
Se dobbiamo arrabbiarci, in altre parole, dovremmo farlo con chi si nasconde e rema contro, non con chi la sua faccia ce l’ha messa sempre. Stento a riconoscermi in una comunità che sembra essere mossa più l’equivalente di una buoncostume gay, che esige un “decoro” e costruisce prescrizioni sul come “si deve” essere e secondo quali modalità e tempistiche (si vedano, ad esempio, le polemiche annuali, ai pride, sul posto che devono occupare gli allies, magari in fondo al corteo). Il movimento Lgbt+ e la comunità che lo produce vogliono essere una realtà di liberazione e di rispetto dell’altro/a da sé, o una nuova conferenza episcopale arcobaleno che stila classifiche di “no”, che manco Ruini ai tempi d’oro?
Se neanche le persone Lgbt+ appoggiano chi fa coming out poi non lamentiamoci se le persone famose restano in silenzio. Viviamo in tempi e in un luogo, l’Italia di oggi, in cui bisogna costruire un tessuto sociale nuovo. E tale ricostruzione dovrebbe avvenire nel segno del dialogo e della comprensione. Ben vengano tutti i coming out, dunque. E azzardo un’ipotesi: le critiche che ho letto potrebbero essere catalogate come una forma di intolleranza. Contro la visibilità e contro il diritto di rappresentarsi come meglio si crede. Cosa che poi ci irrita, a ben vedere, quando altri la riversano su di noi. Le persone, invece, andrebbero valutate per quello che fanno e non sulla base di come e quando fanno coming out.
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