Parliamo di coronavirus, visto che non lo ha ancora fatto nessuno. E, scherzi a parte, si potrebbe citare Manzoni, che la peste l’ha descritta in uno dei capolavori della nostra letteratura – rileggetelo, I promessi sposi, rileggetelo con gli occhi da adulti e fuori dalla costrizione scolastica: ci troverete un pezzo di modernità che fa paura solo a pensarci. E, tra questi frammenti di qui ed ora, ci trovate proprio la follia collettiva che imperversò a Milano con la peste – per cui, si diceva, si potrebbe citare il grande autore lombardo, che pur in un ottica non del tutto condivisibile (non gli perdonerò mai la “conversione”) spiega bene cosa succede alla gente quando la paura irrazionale l’assale. Ma non lo faro.
Vorrei citare, invece, un altro autore. Più contemporaneo, assurto agli onori delle cronache per il suo ultimo romanzo, Febbre, edito da Fandango. Scrive infatti Jonathan Bazzi sul suo profilo Facebook: «Lo stigma non è solo sbagliato moralmente: è pericoloso. Mentre i ristoranti cinesi si svuotavano e Iva Zanicchi in tv dichiarava liberamente “quando vedo un cinese me la do a gambe”, il virus si è diffuso attraverso italiani non testati, lasciati liberi di infettare a manetta sanitari e congiunti. Nel tentativo di riuscire a maneggiare il male, si continua a cercare identità stabili che possano renderlo riconoscibile, circoscritto, meglio se già afflitte da una qualche forma di pregiudizio. Così l’HIV è il virus dei fr*ci, è il coronavirus dei cinesi».
Bazzi ha colto in pieno il meccanismo di un cortocircuito culturale che ha bisogno di colpevoli, senza assumersi nessuna responsabilità. È un po’ ciò che è successo con il governatore Zaia, che pur di informare un fenomeno ad un’abitudine – non importa se vera – è arrivato a dire che «abbiamo visto tutti i cinesi mangiare topi vivi». Non è la prima volta che, in quell’Italia del qui ed ora, un’emergenza sanitaria non è stata impostata sui canoni della responsabilità civile, ma del senso di colpa collettivo. Che è un po’ la stessa differenza che c’è tra atteggiamento scientifico e superstizione religiosa (se vuoi, anche di stampo cattolico). Complice anche un sistema mediatico che ha creato un allarme ingiustificato su una situazione seria da monitorare, sembra essere più importante evitare le persone e criminalizzarle. Senza capire che, tanto per cambiare, il nemico è il virus (o il vairus come pare sia di moda dire), non la persona che lo contrae.
La fenomenologia dell’untore, dunque, riappare. Così come descritta – sia chiaro: mutatis mutandis – nelle pagine dei Promessi sposi. Ieri era il gay, nello specifico (perché scomodare tutti i soggetti potenzialmente disturbanti e marginalizzati, quando si poteva scegliere la vittima perfetta?), oggi il cinese. Il colpevole però è un altro: la necessità della gente di trovare il capro espiatorio, invece di affrontare il problema e rispondere (essere responsabile, in altri termini) della complessità dell’emergenza. È sempre rassicurante disegnare aloni viola – ricordate la prima campagna sull’Aids, nel nostro paese? – sulle vite degli altri. Salvo poi che, quell’alone, può essere cucito su di noi. Quando meno ce lo aspettiamo. E come sta già succedendo.
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