L’interesse del minore a preservare lo status di figlio già acquisito deve bilanciare la “verità biologica”. E’ questa la decisione della Corte Costituzionale nella prima sentenza emessa sul tema della gestazione per altri. Il caso nasce dal ricorso di una donna a cui è stato negato il legame materno con il figlio nato da gestazione per altri in India (prima che l’India la vietasse per chi arriva dall’estero). Quando nel 2012 la donna e il marito, che è il padre biologico del piccolo, sono andati a far trascrivere l’atto di nascita, nel quale, secondo le leggi indiane, risultano entrambi come genitori, l’ufficio di stato civile di Milano ha segnalato il caso alla procura sospettando che si trattasse di un caso di gestazione per altri. Una circostanza che la coppia non ha negato in fase di indagini. La coppia aveva scelto la maternità surrogata perché la donna non poteva più avere figli per le conseguenze di un tumore.
Il pm, secondo quanto riporta il Corriere della Sera, aveva chiesto che il bambino fosse tolto ai genitori italiani e dato in adozione. Nel frattempo, però, la coppia aveva chiesto nuovamente, ottenendola, la trascrizione dell’atto di nascita. Non solo. La verifica del legame biologico tra il padre e il bambino ha fatto sì che il minore venisse dichiarato “non adottabile”. Il problema, dunque, rimaneva il riconoscimento del ruolo della madre. Un ruolo che secondo il Tribunale di Milano non poteva essere riconosciuto perché per la legge italiana è madre colei che partorisce. Da qui, nel 2016, il ricorso in Appello. La Corte d’Appello, però, si è rivolta alla Corte Costituzionale per chiedere se non fosse incostituzionale il divieto di valutare l’interesse del minore a conservare lo status di figlio che, nel frattempo, aveva acquisito nei confronti della madre che lo ha cresciuto fin dalla nascita.
I giudici costituzionali rispondono che il giudice chiamato ad esprimersi su casi del genere può già bilanciare quella che viene definita “verità biologica” e la conservazione della condizione di figlio già acquisita. Questo, in nome del bene del bambino.
“La cosa interessante – sottolinea Angelo Schillaci, ricercatore di Diritto Pubblico Comparato alla Sapienza di Roma – è che la Corte dà rilievo giuridico alla genitorialità non biologica e parla chiaramente di ‘responsabilità procreativa’ per tutta la prima parte della sentenza”. Parte in cui viene citata più volte un’altra pronuncia della Corte costituzionale. E’ la 162 del 2014 sulla legge sulla procreazione assistita. In quella sentenza era già stato riconosciuto che le tutele previste per i bambini vanno applicate anche a quelli nati all’estero con tecniche vietate in Italia, come nel caso della gestazione per altri.
Viene dunque riconosciuto che “la complessiva identità del minore” non è riconducibile alle sole origini biologiche, ma anche alla conservazione dello status di figlio acquisito con i genitori con cui ha vissuto e che lo hanno curato, educato e accudito. Insieme a questi due elementi, il giudice che deve esprimersi deve considerare anche il divieto che la legge italiana impone rispetto alla gestazione per altri.
La condanna, dura, alla maternità surrogata arriva nelle ultime righe della sentenza, dove i giudici scrivono che “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”. “Non c’era bisogno che la Corte entrasse a gamba tesa in un dibattito delicatissimo e controverso senza che questo fosse necessario per il giudizio che era chiamata ad esprimere – commenta Schillaci -. Sarebbe stato sufficiente richiamare il divieto penale, esistente per altro in Italia e non nel paese in cui è nato il bambino in questione, con tutto ciò che ne consegue in termini di valida costituzione all’estero dello status di figlio”.
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