Tra poco più di un mese e mezzo ci saranno le elezioni anticipate e la vittoria delle destre (estreme, radicali, populiste e sovraniste) è accreditata come unico scenario possibile. Secondo tutti i sondaggi il blocco “conservatore” oscilla tra il 45% e il 49% dei consensi. Inoltre, l’ex campo progressista si sta presentando alle elezioni frantumato in tre o quattro blocchi. Il centro-sinistra, ciò che resta del M5S e la galassia centrista, dopo l’addio di Carlo Calenda all’alleanza con Enrico Letta. Rispetto a questo quadro, la vittoria di Giorgia Meloni a mani basse non è solo uno spauracchio. Assume i contorni di una certezza.
Secondo BidiMedia, pur nella prospettiva di una vittoria schiacciante del “centro”-destra a trazione meloniana, gli scenari cambiano molto a seconda della composizione dell’alleanza che sfiderà la leader di Fdi. Una larga coalizione di centro-sinistra che tenga dentro tutti limiterebbe i seggi assegnati all’avversario al 58% delle poltrone disponibili tra Camera e Senato. L’uscita di Calenda porta questo vantaggio al 63%. Quota molto vicina ai 2/3 dei/lle parlamentari che servirebbero per cambiare la Costituzione. In numeri reali, stiamo parlando di 17 voti mancanti. In un contesto, come quello italiano, i cui cambi di casacca sono all’ordine del giorno.
Se la destra meloniana dovesse, dunque, arrivare alla maggioranza qualificata per le riforme istituzionali, così come prevede l’articolo 138 della Costituzione, potrebbe stravolgere la nostra architettura democratica. Leggendo gli Appunti per un programma conservatore – l’opuscolo, sparito dal sito di Fdi (ma reperibile qui) che a marzo scorso fu distribuito durante la seconda giornata della Conferenza programmatica del partito, a Milano – possiamo avere un’idea di quelle che potrebbero essere le intenzioni della destra per il futuro del Paese. Il condizionale è d’obbligo, perché il programma ufficiale, nel momento in cui si scrive, non è ancora pubblico. Eppure non ci sono ragioni sufficienti per credere che in pochi mesi Fdi abbia cambiato rotta, rispetto a quelle linee.
Non è un mistero, innanzi tutto, che l’estrema destra abbia spiccate simpatie per il presidenzialismo. L’uomo forte al potere è un mito che piace molto, a quelle latitudini politiche. E già dai tempi dell’emergente Gianfranco Fini – che a distanza di tutto questo tempo assume la statura di un liberale inglese di primo ‘900, rispetto a quanto si assiste in questa campagna elettorale – il sistema presidenziale era visto come la panacea che avrebbe guarito l’Italia da tutti i suoi mali. Presidenzialismo che però, va ricordato, altrove ha prodotto presidenti come Trump, Putin e Bolsonaro. Una riforma in tal senso, insomma, potrebbe aprire le porte del futuro a personaggi siffatti in salsa tricolore. E in passato, avrebbe potuto vedere come capo di stato e di governo gente come Berlusconi, Salvini e lo stesso Renzi. Per passare, appunto, da Giorgia Meloni.
Dare mandato alla coalizione Fdi-Lega-Fi, nella sciagurata ipotesi di vittoria delle destre, di cambiare la Costituzione potrebbe avere ripercussioni non solo sulla qualità della nostra democrazia, ma anche sulla limitazione dei diritti civili. Soprattutto per noi persone Lgbt+. Si potrebbe inserire, ad esempio, una clausola per cui nell’articolo 29 – che riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio – quest’ultimo è riservato alle unioni tra uomini e donne. E, paradossalmente, a far sponda a questa regressione potrebbe addirittura essere la stessa legge sulle unioni civili, che già nasce come istituto separato. Cosa che, per altro, è già successa in Ungheria.
Ma non ci sono solo le riforme istituzionali a spaventare. Ci sarebbe anche la strada delle leggi ordinarie. A discapito della popolazione Lgbt+, in caso di vittoria delle destre. Un capitolo cupo, ad esempio, è quello della lotta al “gender”, che si potrebbe tradurre in leggi simili a quelle in vigore in Russia e Ungheria, per cui è vietato di parlare di questioni Lgbt+ a scuola. E addio percorsi di contrasto al bullismo e addio all’educazione di genere. Per non parlare dell’orrida proposta contro la gestazione per altri, che di fatto si abbatterebbe solo sui padri gay (le coppie eterosessuali potrebbero agevolmente simulare gravidanze).
E i rischi non ricadrebbero solo sulla popolazione Lgbt+, per cui è chiaro che il quinquennio a venire vedrà – se tutto va sotto il migliore degli auspici – un sostanziale silenzio sulle nostre istanze (se non un ulteriore arretramento). Il diritto all’aborto potrebbe essere cancellato, pur senza cancellare la legge 194 (abbiamo visto come sia possibile negare i diritti depotenziandoli). E il ritorno di un Salvini al Viminale non consentirebbe vita facile alle persone migranti presenti nel nostro territorio. I decreti sicurezza sono un triste e pericoloso precedente, in tal senso. Ma la brutta notizia è che non finisce di certo qui.
Anche le politiche economiche proposte dalla destra vanno contro gli interessi delle fasce popolari. A cominciare da quella flat tax che avvantaggerebbe le persone più benestanti. Certo, ci sarebbe un alleggerimento fiscale per molte persone, ti dicono da chi ha simpatie a destra. Ma evidentemente, sfuggono due questioni:
1) se guadagni poco, risparmierai poco. Se guadagni molto, invece… In termini reali, è profondamente diverso tassare del 23% un insegnante che guadagna 1300 euro al mese e un manager che le guadagna 10.000;
2) il gettito fiscale andrà comunque garantito. E non è peregrino pensare che i tagli alla tassazione verranno compensati con tagli a scuola, sanità pubblica e pensioni. Non una novità assoluta, ovviamente. Ma la destra, da che è al governo, attinge proprio da quei settori. La riforma Gelmini dovrebbe ricordarci qualcosa. Riforma voluta da un esecutivo nella cui maggioranza c’era, udite udite, proprio Giorgia Meloni.
Insomma, il programma di Fdi non è ancora stato pubblicato e andrà valutato ciò che quel partito proporrà nei prossimi giorni. Ma in caso di vittoria delle destre – e nella sciagurata ipotesi che Giorgia Meloni divenisse la prima presidente del Consiglio in Italia – non sarebbe assurdo pensare a queste proposte, come qualificanti di un governo che si vuol dire “conservatore”. Ma che non assomiglia certo a quello di un’Angela Merkel o di una Teresa May. E che ci fa pensare, invece, a Orban.
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