Non. Sono attratta dalle negazioni, soprattutto se posti all’interno di un titolo. E se il titolo in questione è quello di un libro di versi, la mia curiosità investigativa ne viene sedotta immediatamente. Non. Non si può leggere la poesia di Giovanna Cristina Vivinetto (vincitrice del Premio Viareggio Répaci con Dolore minimo – Interlinea, 2018) pensando di affrontare soltanto una bellezza letteraria evidente, quella di versi scritti con una maestria di penna e sensibilità.
«[…]. Così quando a mani giunte
mi hai pregato di rendere il mio stato
più semplice agli occhi degli altri,
di assottigliare il limite tra me e le cose,
io ti ho riso in faccia e poi ho riso di me […]».
Non sarebbe poetessa la Vivinetto se non ci ponesse davanti al fardello della possibilità del dubbio. Dove non siamo stati? Abbiamo davvero raccontato a noi stess* tutta la storia che potevamo? Dove saremmo se, guardandoci indietro, riuscissimo “ad assottigliare il limite tra noi e le cose”? In Vivinetto c’è la vita oltre la morte, la riminiscenza che plasma la parola, un dolore che ha la facoltà di indicare la caducità del corpo e il suo mutare nel tempo. Quello che non c’è è la finzione nel poter dissimulare un conflitto umano innervato, nostro malgrado, nella sofferenza. Esiste e la poesia riesce nella magia legittima di poterlo raccontare. D’altro canto, «La vita passa anche attraverso i resti».
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