L’altra sera, a Cagliari, mi trovavo in pizzeria con alcuni amici del Sardegna Pride. Un allegro gruppo di famigliole, al tavolo accanto al nostro, ha cominciato a parlare della manifestazione. La nostra attenzione si concentra sui loro discorsi, inevitabilmente. Ad un certo punto, uno di loro: «Domani c’è il GGHEI pride. Dopo domani facciamo l’ETERO pride». Seguono inevitabili risatine.
Quindi la moglie di uno di questi fa: «Che poi io non ho niente, ma l’ostentazione no, non mi piace».
«È una carnevalata» dice un altro, dell’allegra comitiva.
«Ma davvero, io non ho nulla contro di loro. Solo che…»
Prima di fare alcune considerazioni sull’episodio, al di là di dire l’ovvietà per cui certe affermazioni sono ormai reazione pavloviana rispetto a ciò che non si conosce, ma che si ha l’arroganza di commentare, vorrei soffermarmi sulla retorica dell’eccesso, che permea tutti questi discorsi. “Pride”, secondo una certa narrazione, coincide appunto con “eccesso”. Ciò che eccede è, per definizione, ciò che è di troppo. E quindi da smaltire, come i rifiuti. Un ingombro, che non ha collocazione propria. Questi discorsi, apparentemente eleganti, ma di fatto cretini, sono un modo come un altro di considerarci superflui. Quindi inutili, da smaltire. Siamo, in pratica, alle “quote latte” della moralità.
Eppure, se vogliamo metterla su questo piano, quello dell’eccesso, sono molte le cose che si potrebbero imputare al mondo eterosessuale come “di troppo”. Superflue, appunto. Superfluità che coincide con la sua evitabilità. Proprio perché, se certe cose non esistessero, avremmo un mondo non solo migliore, ma anche più sostenibile. Anche, e non solo, in termini di buon gusto. A cosa sto alludendo?
Le pubblicità che, per vendere colla, mozzarelle o profumi, assomigliano a un porno.
Il bullismo a scuola, contro bambini obesi, ragazzine insicure o considerate brutte, contro adolescenti Lgbt, contro chi va bene a scuola e viene etichettato come secchia. E che poi, magari, si suicida.
Il femminicidio e la violenza sulle donne.
Abbandonare neonati nei cassonetti.
I cartelli dei bar con gli shot gratis a seconda della taglia di tette delle clienti.
Andare in giro come pazzi la notte, in macchina, a tutta velocità solo perché la tua squadra di calcio ha vinto una partita di qualsivoglia campionato.
Andare per strada a fare complimenti da maniaco sessuale a donne che li eviterebbero più che volentieri.
Urlare “froci” da una macchina in corsa e scappare via, perché nella vita il coraggio è tutto.
Picchiare i “froci” in branco, sempre perché nella vita il coraggio è tutto.
Potrei andare avanti per molto tempo ancora, ma mi fermo qui.
Ovviamente, gli eccessi non sono tutti uguali. Per certe persone eterosessuali è più insostenibile un culo agitato su un carro ad un corteo che una donna uccisa ogni tre giorni da un compagno violento. Per molte persone che partecipano ai pride, invece, l’eccesso è uno strumento politico che serve proprio a denunciare l’ipocrisia di un mondo moralista e bacchettone, che guarda la pagliuzza — e la paillette — arcobaleno nell’occhio del vicino (magari sotto forma di ombretto) e non vede la trave dell’eterosessismo ben piantata nel suo sguardo, facendolo diventare cieco. Come spiegare a certa gente che da loro non siamo disposti/e ad accettare consigli nemmeno su come si fa il caffè?
Ritorniamo alla scena di cui sopra: l’allegra brigata di famigliole, i loro bambini alienati dai telefonini. I padri manco a parlarne. Lei, quella che non ama gli eccessi, ha una giacca tutta luccicante. Mi verrebbe da dire loro che un tempo, se avessi voluto mettere quella giacca, sarei stato arrestato. Ed è in questo discrimine la differenza tra un pride (Lgbt+, non GGHEI) e la loro vita. Quelli che addosso a noi, certi etero, definirebbero eccessi, loro non se li sono mai dovuti conquistare. Li hanno comprati in boutique, forse coi saldi.
Ieri, al Sardegna Pride, ci sono andato con questo spirito. E senza giacche di merda.
(nell’immagine di copertina, la pubblicità di una catena di fast food statunitense)
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