Sono 4,2 milioni le persone che gli sponsor di Facebook hanno catalogato come omosessuali in paesi dove l’omosessualità è un reato. Di queste 940 mila in Arabia Saudita dove c’è la pena di morte. Lo dice la ricerca dell’università Carlo III di Madrid che ha recentemente pubblicato un nuovo studio.
I ricercatori madrileni hanno studiato i modo con i quali Facebook classifica le informazioni per la pubblicità. Le opzioni che il social fornisce agli inserzionisti per profilare le pubblicità sono circa duemila e includono dati sensibilissimi come l’orientamento sessuale, politico e l’etnia. Facebook è in grado, ad esempio, di prevedere gli interessi di ognuno dei suoi iscritti incrociando i dati derivanti dai mi piace e dalle attività svolte su quei siti esterni che condividono però dati con il social stesso. Sebbene l’identità degli utenti sia nascosta agli inserzionisti, l’università Carlo III ha lanciato comunque l’allarme.
La risposta di Facebook alle preoccupazioni degli esperti non si è fatta attendere. Interpellata da Newscientist, rivista che per prima ha pubblicato la ricerca dell’università di Madrid) la società di Mark Zuckemberg ha risposto che non è detto che se qualcuno mostri interesse per qualcosa abbia quell’attributo. Se metti mi piace a un post su una squadra di calcio, non è detto che tu sia un tifoso e seguendo lo stesso ragionamento se metti mi piace a una pagina Lgbt+ non è detto che tu sia gay. In ogni caso Facebook ha annunciato di aver recentemente rimosso più di cinquemila opzioni di targeting pubblicitario proprio per eliminare i rischi connessi a possibili discriminazioni.
Interpellati da Repubblica, testata che ha rilanciato la notizia, gli esperti hanno espresso tutta la loro preoccupazione. «Il mercato dei dati è articolato e pieno di falle. Una volta che c’è un dato su una persona – per quanto protetto – non si può sapere a chi riesce ad arrivare. Per questo motivo, la privacy ha forte rilevanze etiche. In Europa, il dato sensibile come l’orientamento sessuale per essere trattato richiede una serie di precauzioni ulteriori rispetto a quelle di base. Tra l’altro, il consenso esplicito dell’utente. Ma questo è il punto di debolezza del mondo dei social media, perché il consenso non lo chiedono a tutti gli effetti. D’altro canto, però, le autorità garanti privacy hanno difficoltà a sanzionare queste pratiche, perché la normativa che le regola direttamente (“ePrivacy”) è in via di rifacimento, in ritardo, da parte delle istituzione europee», spiega Rocco Panetta, avvocato esperto del settore ed ex dirigente dell’Autorità Garante per la privacy. Anche Guido Scorza è un avvocato esperto: «Questione spinosa. Credo che sia il classico problema nel quale la condotta di Facebook non è illegale in sé ma è pericolosa specie in relazione allo scarso livello di cultura del dato e del digitale che ancora c’è nel mondo». Scorza prosegue: «Non è tanto un problema di quello che fa Facebook ma di quello che abilita altri a fare. Siamo certi per esempio che gli investitori che usano il servizio non considerino i dati degli utenti interessati a contenuti gay come gay? E conta anche molto il livello culturale generale: quanti se mi vedono sfogliare un giornale per gay pensano che sia gay? L’episodio è sintomatico dall’esigenza di un investimento globale importante in cultura dei dati e dei diritti fondamentali in generale».
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