Politica&diritti

Le femministe a favore della legge Zan: “Il nemico comune è la misoginia”

C’è una narrazione sbilanciata, nell’agone politico che costruisce le solite barricate in relazione alla legge contro l’omo-bi-lesbo-transfobia. Narrazione che conosciamo già dai tempi delle unioni civili, al capitolo relativo alle stepchild adoption. Diverse furono, allora, le voci contrarie. E quelle voci risuonarono come fuoco amico, da parte di un certo femminismo. E attenzione: parliamo di “certo”, non tutto. Perché «il femminismo italiano è ampio e plurale, con storie, linguaggi e pratiche diverse. Ha attraversato e indirizzato le nostre vite nel pubblico e nel privato». Eppure il giornalismo italiano sembra non accorgersene. Creando, appunto, quello sbilanciamento.

Le femministe critiche con la legge Zan

Oggi come nel 2015-16, quella porzione di mondo femminista – riconducibile a Se non ora quando – Libere, ad Arcilesbica e in parte al femminismo radicale – ha manifestato forti critiche sulla legge Zan. Ci sono state voci, anche se forse certe posizioni sono più vicine al folklore che alla politica, che si sono anche pronunciate esplicitamente contro. L’oggetto del contendere è l’inserimento dell’identità di genere, che secondo certe attivista contribuirebbe a cancellare le donne. Ebbene, la narrazione sbilanciata – e quindi fuorviante – ha fatto sì che certi quotidiani nazionali facessero credere che tutto il femminismo sia critico o addirittura ostile al ddl in questione. Ebbene, non è così.

La dichiarazione delle 58 attiviste femministe

Michela Marzano

«Come femministe vogliamo intervenire nel dibattito apertosi sul testo unificato Zan all’esame della Camera» scrivono in una dichiarazione congiunta ben 58 femministe: attiviste, giornaliste, scrittrici, attrici e molto altro ancora. Da Susanna Camusso a Michela Marzano, da Veronica Pivetti a Dacia Maraini. E ancora: Marilena Grassadonia, Luisa Rizzitelli, Graziella PriullaLunetta Savino, Lidia Ravera… impossibile nominarle tutte. «Il testo» si legge ancora «punisce ogni forma di istigazione al compimento di atti discriminatori e violenti per motivi legati a sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere. Cosa c’è di problematico in questo elenco? Perché sta divenendo un terreno di scontro così acceso?» Di fronte a questi interrogativi «serve a nostro avviso un po’ di chiarezza».

L’importanza del riferimento all’identità di genere

Le firmatarie fanno notare che «la legge punisce i discorsi e i crimini d’odio per motivi legati all’identità di genere, ma nulla prevede rispetto alle procedure per le “rettificazione anagrafica del sesso”, ad oggi ancora regolate (con criteri più che rigidi) dalla legge 164 del 1982». Il pericolo che chiunque possa definirsi donna, togliendo spazi politici e privati alle donne cisgender è dunque immotivato. Quello di identità di genere, per altro, è «un concetto largamente acquisito nel nostro ordinamento, riconosciuto in testi di legge e in convenzioni internazionali» e «su cui più volte si è espressa la Corte Costituzionale». Insomma, è un errore «pensare di sostituirlo con il riferimento alla “transessualità”, termine che peraltro in ambito giuridico non ha alcun riscontro».

La legge non minaccia l’esistenza di nessuna

Graziella Priulla

«Il testo che abbiamo letto e analizzato ci sembra non minacci l’esistenza di nessuna, che ampli anzi le forme di protezione da discriminazione e violenza a tutte le soggettività riconosciute» fanno notare ancora le firmatarie. «In più, non dimentichiamo che costituisce già l’esito di un dibattito e di un tentativo di incontro tra diverse sensibilità. […] Sostenere questa legge non significa rinunciare a un pensiero e a un’elaborazione sui nostri corpi, o abbracciare un neutro declinato al maschile». Rimandando alla lettura integrale del documento, che è stato pubblicato su Repubblica.it, resta aperto l’interrogativo: perché i media si ostinano a produrre generalizzazioni che portano, poi, a divisioni e confusione?

Il nemico comune

Tra le femministe firmatarie del documento, c’è Giorgia Serughetti, ricercatrice in Filosofia politica all’Università Bicocca di Milano. In un’intervista al Manifesto, spiega il perché della sua adesione al ddl Zan, ricordando che c’è una matrice comune alla base di misoginia e odio contro le persone Lgbt+. Si tratta dell’ostilità «che si scatena nei confronti della manifestazione di stili di vita che non sono accettabili all’interno di uno schema gerarchico dei generi e delle sessualità. La misoginia è alla base dell’odio nei confronti degli uomini gay in quanto femminilizzati, così come delle persone trans che hanno varcato i confini fra i generi».

“Proiezione fantasmatica di cose che accadono altrove”

Giorgia Serughetti

Sul pericolo della cancellazione del femminile, Serughetti è chiara. Per la ricercatrice, «nasce da una proiezione fantasmatica di cose che accadono altrove. Se in alcuni Paesi c’è la percezione di diritti delle donne messi a rischio dall’intromissione di altri soggetti, in Italia di tutto ciò non c’è neanche l’ombra». Non c’è nessun “assalto transgender” alla diligenza del femminile: «Spazi di privilegi delle donne che siano terreno di conquista da parte delle persone trans io proprio non ne vedo».

Il vero rischio? Che non passi la legge

La legge insomma sembra accontentare quella parte del femminismo intersezionale che sta conquistando la scena politica, di giorno in giorno. Sarebbe un bene che anche certa stampa nazionale se ne accorgesse. Superando quella pigrizia – se di pigrizia si tratta – che porta a ridurre fenomeni complessi in semplici generalizzazioni. Il rischio reale, secondo le firmatarie, è che la legge non passi. Una legge che aspettiamo da venticinque anni. Non c’è tempo da perdere, insomma. Men che mai dietro paure infondate.

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