Sul caso della cartella clinica del ragazzo gay all’ospedale di Alessandria sono state dette molte cose. Non sono un medico. Credo che il lavoro dei medici debbano farlo loro. Se è vero che una comunità chiusa, come quella Lgbt, può avere fattori di rischio superiori rispetto ad altre sull’insorgenza di alcune patologie e sul contagio di alcune infezioni, è un dato che non può essere sottaciuto. E questo è un punto, a mio modo di pensare, su cui c’è poco da discutere. Si può discutere, invece, su come tale dato può essere raccontato e diffuso, nel discorso pubblico.
Occorre capire, insomma, se se ne fa un fatto di identità o di comportamenti. Nel caso in questione, si legge, si poteva profilare l’eventualità di un’encefalite o di una meningite. Da lì la necessità di considerare anche quel dato nella cartella clinica. La struttura sanitaria, per altro, dichiara di essere «molto dispiaciuta di leggere che un nostro paziente possa essersi sentito “discriminato” in un percorso di cura che prevede la raccolta di dati anamnestici finalizzati a curare nel miglior modo possibile il paziente». La ragione per cui si è chiesto se fosse omosessuale, dunque, era per avere un quadro clinico quanto più completo possibile. Ok. La domanda da porsi, credo, è la seguente: il fattore di rischio è legato all’essere gay o a specifiche condotte? Tali specifiche condotte, ancora, sono da considerare una conseguenza dell’omosessualità, in senso assoluto?
La scienza è neutrale, di fronte ai fenomeni che analizza e studia. Dovrebbe esserlo anche la medicina, quando prende in cura un/a paziente. Purtroppo, ciò non garantisce la neutralità di medici e personale sanitario. Lo vediamo quando si parla di interruzione di gravidanza, fine vita, trapianto o espianto di organi, ecc. Il dato umano, con i suoi eventuali limiti e pregiudizi, ha un peso oggettivo. Tempo fa un medico, durante una visita di controllo per un test Hiv, mise sul piatto della bilancia la valutazione morale delle mie condotte sessuali (ed io non mi espongo a pratiche a rischio, per intenderci). Mi sono sentito giudicato, invece che accompagnato in un percorso di consapevolezza. Quel dottore non vedeva me, ma la mia condizione personale. Ad Alessandria, dovremmo chiederci, è successo questo o siamo di fronte a un colossale malinteso?
A tale proposito, credo che sia legittimo un dubbio: si sarebbe chiesto e verbalizzato qualcosa come “eterosessuale, sposato”, in caso il paziente fosse stato un uomo accompagnato dalla moglie? Il punto centrale è questo. Penso che sia sempre opportuno parlare di comportamenti a rischio e non di categorie rischiose. Io posso essere gay e cambiare partner continuamente, senza usare il condom. Non è la mia omosessualità che mi espone al rischio: semmai, le mie scelte dentro la mia condizione sessuale. Lo stesso discorso andrebbe fatto per quegli/lle etero che cambiano partner come calzini e non usano protezioni. Eppure, ancora oggi, nel 2019, l’“essere gay” sembra ancora più importante dell’avere condotte di un certo tipo. Contribuendo a medicalizzare una condizione che dovrebbe essere vista, percepita e raccontata come una variante dell’essere umano e non come un pericolo per la comunità.
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