Negli ultimi anni sempre più persone in transizione optano per la richiesta contestuale di autorizzazione agli interventi di mutamento del sesso e di rettifica del genere anagrafico secondo la legge 164/1982.
La giurisprudenza maggioritaria di tutti i Tribunali italiani, ad oggi, è conforme e costante in tale orientamento, attenendosi ai principi di diritto enunciati dalla sentenza della Corte di Cassazione (n. 15138/2015) e dalla sentenza della Corte Costituzionale (n. 221/2015).
Sottoporsi agli interventi chirurgici di riattribuzione del sesso, dunque, da qualche anno non è più necessario per chiedere il cambio del nome e del genere anagrafico.
Una grande vittoria nella battaglia per tutte le persone che sono costrette a rivolgersi ai Tribunali per avere documenti coerenti con la propria identità e che (non sempre) vogliono modificare chirurgicamente il proprio corpo ed essere dunque costrette ad una sterilizzazione forzata.
Le numerose sentenze degli ultimi anni sono, come dicevamo, il diretto riflesso di due importantissime sentenze delle corte superiori. In particolare la sentenza della Corte Costituzionale ha espressamente sancito come irragionevole subordinare l’esercizio di un diritto fondamentale, personalissimo e costituzionalmente tutelato quale il diritto all’identità di genere, all’esposizione della persona a trattamenti sanitari – chirurgici o ormonali – non voluti ed eventualmente anche pericolosi per la salute.
Ciononostante, sono molteplici le difficoltà che purtroppo a volte si possono riscontrare in questo percorso giuridico. Una fra tutte, la nomina di CTU (un “esperto”) da parte del Giudice, che accerti la condizione di Disforia di Genere e l’irreversibilità del percorso. Questo nonostante l’OMS abbia da tempo riconosciuto che la transessualità non è una malattia. Ma allo stato attuale, in Italia, rimane necessario consultarsi con legali esperti in queste tematiche. L’esito rimane strettamente legato ad una documentazione endocrinologica e psicologica che sia completa ed esaustiva.
La procedura di riferimento però è rimasta la stessa da quasi 40 anni, ed è quella della legge 164 del 1982. Bisogna ricorrere ad un procedimento giudiziario in cui serve essere assistiti da legali preparati. Non basta, ancora, una semplice procedura amministrativa, come avviene in altri paesi (ad esempio la vicina Spagna).
Ci auguriamo che presto, anche in Italia, il riconoscimento della propria identità di genere da parte dello Stato diventi se non semplice quanto bere un bicchiere d’acqua almeno meno simile ad un (a volte lungo) calvario.
Avv. Michele Giarratano – Avv. Chiara Solmi
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