Il recente caso della sentenza di Trento ha messo in agitazione le femministe della differenza: le stesse, per intenderci, che non accettano che una donna sia libera di donare il proprio corpo – o di metterlo a disposizione, dietro ricompensa – per permettere a due gay, a due etero o ad una persona single di esser genitori. In nome di quello che si profila come vero e proprio slogan post-femminista: “il tuo utero è mio e te lo gestisco io”. Affermazione che di fatto manda alla malora decenni di lotte per l’autodeterminazione.
Il 3 marzo Luisa Muraro, femminista storica e filosofa, scriveva sul sito della Libreria delle donne di Milano un post intitolato Una di meno: nelle sue parole, il forte rammarico per la decisione del tribunale trentino e l’urlo di dolore, condito da un malcelato perbenismo anticapitalista, per cui a svanire nel caso siffatto è la figura della madre. Di fronte alla richiesta di tutela giuridica nei confronti della prole, «le giudici» si legge «avendo studiato filosofia, hanno detto sì, quello che conta nella generazione di un essere umano è l’amore (detto anche eros) e la disposizione spirituale; il corpo è secondario. Anzi, in questo caso, surrogabile. Morale della favola: una madre in meno».
Alcune cose saltano agli occhi, in quel profluvio di parole, in mezzo a una vena ironica che tenta di essere sferzante ma si limita a risultare indispettita e rancorosa: innanzi tutto, la commistione tra amore genitoriale ed eros. Eros che nella rappresentazione collettiva è più vicino al concetto di amore carnale, di sessualità. In questo processo si confonde (volutamente?) il soggetto portatore di sentimento – il gay, nel caso specifico – con il suo agito sessuale: lo hanno già fatto Le Iene, qualche settimana fa. Programma che a quanto pare fa tendenza, insomma.
In secondo luogo, Muraro sembra ignorare due aspetti concatenati e tra loro imprescindibili. Piaccia o meno – e lo abbiamo capito: alla filosofa e alle sue emulatrici non piace affatto – le donne che si prestano alla gestazione per altri sono persone libere, laddove ci sono leggi che regolano la pratica e tutelano le gestanti. Basta parlarci, per capirlo. Evidentemente quando la libertà femminile è utilizzata per aiutare i soggetti maschili, certo femminismo si ribella. Venendo a coincidere, di fatto, con il sessismo. O trasformando un’intera corrente di pensiero nell’equivalente di un post di Diego Fusaro. Poi certo, se è questo lo scopo che ci si prefigge in quelle latitudini, chi siamo noi per giudicare?
Ma non solo: con quel titolo, Una di meno, si fa torto innanzi tutto a una persona che decide, appunto, che il suo corpo diventi ricettacolo di nuova vita. La “madre surrogata” non dovrebbe essere percepita in negativo – come fa invece Muraro, azzerando l’identità della gestante – perché ha fatto una scelta che, al contrario, la autodetermina. Avete presente quando si dice che il male sta negli occhi di chi guarda? Ecco, a volte si annida anche nelle mani di chi si inventa certi titoli. E ancora: impedire che una nuova vita possa essere, in nome di pruriti ideologici, significa dire a quei bambini e a quelle bambine che mai dovrebbero venire al mondo. In tal caso quanti e quante ne conteremmo, in meno? Aspettiamo solerte risposta.
Mentre leggevo di quel fastidio di nicchia (coincidente con più note isterie di massa) ad uso e consumo di un veterofemminismo che potremmo ribattezzare “della diffidenza” – nei confronti della libertà femminile e del sentimento genitoriale, nello specifico – ho scoperto che proprio ieri, sempre a Trento, Forza Nuova ha protestato «contro lo spettacolo Fa’afafine, accusato di “diffondere il gender” tra i bambini». Contemporaneamente, sono scese in piazza le redivive Sentinelle in piedi, per pregare contro la stessa sentenza.
E siccome non ci facciamo mancare nulla, i (non poi così noti) movimenti contro la Gpa – ridefinita “utero in affitto”, secondo una suggestione che potremmo definire adinolfiana – organizzano convegni dello stesso tenore. Coincidenza inquietante: è drammatico che percorsi così diversi, le cui radici partono da ideologie lontane e contrapposte, diano gli stessi frutti.
L’autodeterminazione sembra non piacere, insomma. Che una persona decida come pensare al suo corpo e a dotarsi di un’identità conseguente, non piace ai fascisti. Che una donna, invece, scelga di mettere al mondo una vita, nel pieno del rispetto della sua volontà e secondo la legge, non è qualcosa che va a genio ad altre frange politiche (sempre più estreme?, viene da chiedersi). Sembra che sia l’uso che facciamo del nostro corpo il vero problema. Perché esso è il tempio della nostra identità e chi lo controlla ci ha in mano. Poi, che ai fascisti non piaccia che qualcuno si appropri della propria libertà è qualcosa che non ci è nuovo. Ma dalle vecchie, care compagne vetero-femministe non ce lo aspettavamo. O sì?
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