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Gridare #blacklivesmatter è una questione che riguarda anche te

Immaginate di stare in ginocchio per otto minuti e quarantasei secondi, sui sanpietrini. E non solo. Mettici pure la mascherina, e il sole sulla testa. «È una posizione scomoda, lo sappiamo» dicono dal palco gli organizzatori e le organizzatrici della manifestazione #blacklivesmatter. Ma è un modo, poco più che simbolico, per ricordarci che in ginocchio quel giorno non c’eravamo noi. C’era invece un poliziotto. Sul collo di George Floyd. Un uomo, quest’ultimo, che per tutto quel tempo ha provato a far capire a chi stava su di lui che non riusciva a respirare. Se è “scomodo” rimanere inginocchiati per tutto quel tempo, immaginate la sofferenza di chi sotto quel ginocchio ci è morto.

L’emblema dell’oppressione

Non possiamo capire cosa sia quella sofferenza. Sia perché non l’abbiamo provata, sia perché è la punta dell’iceberg di una sofferenza più grande. Non solo fisica, ma anche politica, sociale ed economica. Il ginocchio di quel poliziotto è l’emblema di un’oppressione più grande che da troppo tempo grava sulla vita e sulla dignità della popolazione afroamericana. Per questa ragione oggi era doveroso essere a piazza del Popolo, a Roma. Perché, come recitava uno dei cartelli portati a mano da una manifestante, «se siete neutrali in situazioni di ingiustizia avete scelto la parte dell’oppressore».

#blacklivesmatter, rispettando la distanza

La piazza di oggi, a Roma, è l’ennesima che grida la sua indignazione contro il razzismo e la violenza che la popolazione afroamericana è costretta a subire, negli Stati Uniti. Abbiamo già visto le immagini di Torino, per fare un solo esempio. Piazze arrabbiate, ma composte. Nel rispetto del distanziamento sociale – a terra c’erano dei segnali, su cui ci si poteva disporre, in modo da osservare le norme di sicurezza – e quanto di più lontano dalle recenti adunate in cui sovranisti e personaggi di estrema destra tolgono le mascherine e creano assembramenti, loro sì, per un selfie con il leader di turno. Piazze, quelle del #blacklivesmatter, che hanno scelto l’opposto della neutralità, di cui sopra: la militanza.

Una piazza che interroga le nostre coscienze

È una piazza che ti prende le viscere. Che ti inumidisce gli occhi. Che interroga la coscienza. Ci sono molti ragazzi e ragazze, vestiti di nero. Genitori e figli, insegnanti e studenti. C’è la società civile, a piazza del Popolo. Ad un certo punto, incontro due giovani, un bianco e un nero. Tengono insieme lo stesso cartello: «What do we want? JUSTICE. When do we want it? NOW». Le mascherine non nascondono la gravità del loro sguardo. Un altro manifesto recita: «White silence is violence». Ad un certo punto, mi torna in mente una delle frasi più celebri di Martin Luther King: «‬Alla fine,‭ ‬non ricorderemo le parole dei nostri nemici,‭ ‬ma il silenzio dei nostri amici‭»‬.‭ Ecco perché non si può rimanere in silenzio.

Perché #blacklivesmatter riguarda anche te

La questione razziale, negli USA, non è qualcosa che non ci riguarda. Tutto il contrario. L’oceano e il diverso contesto socio-culturale non la rendono distante, ma diversa. Essa tocca la totalità delle nostre vite: come bianchi, innanzi tutto. Noi non sappiamo effettivamente cosa significhi vivere nella consapevolezza di uscire di casa e rischiare sgradevoli attenzioni da parte delle forze dell’ordine per il colore della pelle. Ma da italiani e italiane, sappiamo che l’integrazione e il “rispetto per l’altro/a” sono traguardi ancora lontanissimi dall’essere raggiunti. Ius soli, decreti sicurezza, accordi con nazioni che rinchiudono i migranti nei lager, sono tutte cose che rappresentano il nostro discorso politico agli occhi del mondo.

#blacklivesmatter e la violenza delle forze dell’ordine

E non solo. La violenza da parte di agenti delle forze dell’ordine contro civili inermi è qualcosa che ha popolato anche le cronache di casa nostra. Proprio dal palco della manifestazione è stato ricordato cosa è successo a Genova, alla scuola Diaz. E ancora, sono stati ricordati i nomi di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi. Vittime di chi, indossando una divisa, ha deciso che le loro vite valevano poco. Molti altri i nomi che potrebbero essere fatti e che ci ricordano che a smettere di respirare potrebbe essere chiunque, se passa il messaggio che un fermo stradale o un arresto possono equivalere a una condanna a morte.

Perché dobbiamo urlare #Icantbreathe

In un’ottica intersezionale, la frase “I can’t breathe” diventa lo specchio di un’oppressione che viene esercitata su vasta scala contro altre categorie sociali. La questione di genere, in opposizione al patriarcato, la questione Lgbt+ in contrapposizione all’eterosessismo, la salvaguardia dei diritti sociali in opposizione ad un sistema politico ed economico che vede nelle garanzie democratiche un ostacolo al profitto, sono tutte diramazioni della stessa battaglia. Abbiamo tutti e tutte un peso che opprime le nostre esistenze e che non ci permette di “respirare” come vorremmo. Per tutte queste ragioni oggi era importante essere lì. Anche se per qualcuno è poco più di un atto simbolico. Ma i grandi cambiamenti cominciano anche dai simboli. Dall’altra parte della barricata restano il silenzio e la complicità. Ognuno poi faccia la sua scelta.

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