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La bufala gender? Nasce tutta dalla questione femminile nella Chiesa

Oramai, da tre anni a questa parte, l’utilizzo della parola “gender” parte della narrazione collettiva. “Complotto gender”, “bufala gender”, “teoria gender”: tutti sembrano avere qualcosa da dire.
Se si rimanesse nell’ambito del chiacchiericcio, nulla da obiettare. Il problema è che su questa parola è stata innescata una rilevante operazione di diffusione di panico, con una strategia ben precisa all’inizio sottovalutata, in primis dalla comunità LGBTI stessa.
Ne abbiamo cominciato a sentire l’odore addosso quando le “Sentinelle in piedi” sono apparse nelle nostre piazze, liquidate inizialmente come “quattro esaltati”.
Oggi sappiamo che dietro queste persone c’è un disegno organizzato, multilivello, che si pone l’obiettivo di parlare a target differenziati del mondo cattolico ma anche di fasce della società rappresentative di vari fondamentalismi.
Chiariamo subito una cosa: gli “studi di genere” (gender studies, in inglese) nascono negli Stati Uniti negli anni cinquanta del Novecento con le ricerche sulle diverse dimensioni dell’identità sessuale e poi si sviluppano negli anni settanta con quelle sulla condizione femminile. Trattano, quindi, un ambito molto ampio e in gran parte centrato sull’emancipazione della donna.
Ed è proprio dalla considerazione della donna che parte tutto, non dalla questione LGBTI.
Il complesso universo della morale cattolica ruota, infatti, ancestralmente intorno alla presenza di due monoliti inscalfibili, immodificabili e pensati come assolutamente complementari: l’Uomo e la Donna.
L’appartenenza all’uno piuttosto che all’altro di questi due “archetipi” regolerebbe ogni collocazione dell’essere, dall’ambito famigliare, a quello lavorativo, fino a quello religioso, secondo percorsi obbligati, dove la possibilità di diversificazione è minima. Estremizzando: alla donna l’ambito della cura famigliare, all’uomo quello del lavoro, agli uomini gli studi scientifici, alle donne quelli umanistici e così via.
Da queste basi emerge il modernissimo filone neo-fondamentalista rappresentato da personaggi che conosciamo bene.
Le alte sfere del mondo cattolico, quindi, più che essere preoccupate di orientamento sessuale e identità di genere, guardano allo scricchiolare dell’impianto dualistico su cui si regge tutto, da Adamo ed Eva in poi.

Ma la campagna, essendo ben orchestrata, parla in modalità differenziata e stratificata.

Compare così anche la componente omofobica e misogina reale, quella rappresentata da gruppi di varie dimensioni e confessioni religiose.
Oggi questi gruppi non possono più affermare esplicitamente (nonostante lo desidererebbero) che la donna va sottomessa e che gli omosessuali devono essere discriminati, perché è un territorio concettuale fortunatamente superato.
Hanno avuto bisogno di inventare qualcosa di inedito, che creasse panico e interesse allo stesso tempo, puntando ad un argomento su cui tutti siamo molto suscettibili: i figli.
Prendendo spunto dal documento “Standard per l’Educazione Sessuale”, pubblicato nel 2010 dall’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS in Europa con l’obiettivo di fornire linee guida agli educatori di ogni ciclo educativo di bambini e ragazzi, è stata diffusa l’informazione che nei programmi scolastici italiani sarebbero state introdotte, su spinta di una fantomatica lobby, sia l’educazione sessuale (con una raffigurazione delirante che arriva alle lezioni pratiche di masturbazione) sia l’insegnamento del genere fluido obbligando, sempre assecondando il delirio, i bambini a vestizioni secondo il genere opposto.

Su queste paure e sulla facilità di generarle, è montata la campagna “anti gender” che poi ha portato alle valanghe di lettere ai presidi, alle tonnellate di byte di messaggi allarmati circolati su Whattsapp, che hanno obbligato la ministra Giannini a chiarire e a mettere un punto su questa campagna diffamatoria.

I primi due filoni di narrazione hanno, poi, trovato un terreno comune in occasione dei percorsi di approvazione, in vari paesi ad alta densità cattolica, delle leggi sulle unioni civili e matrimonio egualitario.
Su questo punto il ruolo delle gerarchie ecclesiastiche è stato più evidente: obiettivo, non avere alcuna legge che regolasse, in maniera inclusiva, le famiglie non ancora tutelate, perché, e ritorniamo al primo filone, esiste solo una famiglia, quella formata da Uomo e Donna, altrimenti andrebbe riformulato ab initio l’intero apparato teologico/morale.
Il percorso di opposizione alle leggi è avvenuto con agganci concettuali diversi anche cavalcando la paura del gender e contribuendo a prefigurare l’ipotesi di una violenta operazione in essere di sovvertimento della società, a partire dall’unica famiglia possibile.

I risultati di tutta questa macchina complessa? Parziali. Le leggi su matrimoni egualitari e unioni civili sono sempre approdate alla fine dei loro percorsi, a volte, come in Italia, in maniera accidentata. Perché, alla fine, i percorsi evolutivi delle società, quelli che si fondano su esigenze reali delle persone e sull’incontro con le persone stesse, non hanno paura di nulla, neanche del “gender”.

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