Ferragosto è ormai alle porte. Che voi lo festeggiate in spiaggia, in montagna o a casa con un buon libro in mano e sotto il condizionatore acceso – sì, fa caldo – è bello pensare ad alcune buone notizie che ci hanno allietato in questa estate. Certo, i problemi non mancano, soprattutto quando parliamo di diritti delle persone Lgbt+. E sappiamo che in autunno torneranno questioni molto importanti, a cominciare dalla discussione del ddl Zan. Eppure, nonostante sia importante non abbassare lo sguardo, possiamo gioire di alcune buone notizie. Ne abbiamo decisamente bisogno.
La prima di queste buone notizie: la Nuova Zelanda ha abolito le terapie riparative. Pratica ascientifica che consiste nel condizionare l’orientamento sessuale delle persone Lgbt+ attraverso elettrochoc e preghiera. Sono molti i paesi in cui questa barbarie veniva esercitata e negli stessi si sono prodotte legislazioni per impedirla. La Nuova Zelanda, proprio questa estate, ha approvato una legge che le impedisce.
L’iniziativa è stata sostenuta dal ministro neozelandese Kris Faafoi, titolare della Giustizia. «Le pratiche di conversione non hanno posto nella moderna Nuova Zelanda» ha dichiarato, alla stampa locale. «Si basano sulla falsa convinzione che l’orientamento sessuale, l’identità di genere o l’espressione di genere di una persona siano “rotti” e abbiano bisogno di essere aggiustati». Faafoi ricorda anche: «Professionisti della salute, leader religiosi e sostenitori dei diritti umani qui e all’estero si sono espressi contro queste pratiche ritenendole dannose e potenzialmente in grado di perpetuare pregiudizi, discriminazioni e abusi nei confronti dei membri delle comunità arcobaleno». Il piccolo paese oceanico è, insomma, un posto migliore.
Eppure, in un ottica intersezionale, sono anche altri gli aspetti che vanno messi in risalto. Da Paola Enogu, atleta italiana di pelle nera scelta come portabandiera, alla vicenda di Tamberi e Barshim, con la scelta di condividere l’oro del salto in alto, «possibilità contemplata dal regolamento dell’atletica ma senza precedenti in una finale olimpica» ricorda Repubblica.it. E non solo: «Poi, al momento della premiazione, lo scambio delle medaglie con il marchigiano che la infila al collo del campione del mondo in carica qatarino e viceversa». Tutti segnali di una narrazione nuova, lontana dalle sirene del sovranismo che imperversa invece alle nostre latitudini. Un sovranismo fatto di competizione tra popoli (“prima gli italiani”, appunto), di odio razziale, di mancanza di dialogo. E invece questi giochi olimpici hanno dato una rappresentazione diversa. E questa è di certo una buona notizia.
È il ventiseiesimo pride nella capitale ungherese. Un paese, quello governato da Orban, dove ci sono molte restrizioni per la comunità Lgbt+. E in cui la libertà di stampa, così come l’indipendenza del potere giudiziario, non è proprio un fiore all’occhiello di quella comunità. Scendere in strada a reclamare il proprio orgoglio non è solo un diritto, ma un atto di sfida a un potere che diviene, giorno dopo giorno, sempre più illiberale. Sapere che c’è una risposta molto forte e coraggiosa a questa ondata sovranista, che sembra scivolare sempre più verso il fascismo, fa ben sperare. E ci dà un modello positivo da emulare. Quello di una ribellione, di fronte a quei tentativi di mettere un catenaccio sui nostri diritti e sulla nostra libertà.
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