Caro Ozpetek, eppure la stagione dei pride è lontana. Faccio questa osservazione perché di solito, i soliti distinguo sull’essere Lgbt – conditi dalla necessità di prenderne le distanze – arrivano con le rondini, verso maggio. E provengono anche da persone comuni che ci ricordano quanto davvero non ci sia bisogno di rivendicare la propria identità. Da qualche giorno, invece, il bisogno di esprimere quel senso di lontananza arriva a ridosso di Natale, ora che gli uccelli migratori sono andati via. E sotto attacco, ancora, c’è il diritto ad essere noi stessi/e e il bisogno di esprimerlo. E se mi permette, anche se probabilmente mai leggerà queste parole, provo a spiegarle il perché.
Lei, Ozpetek, confonde il diritto all’identità come vezzo dell’apparire. In buona sostanza, la sua critica è riassumibile con il sempregrigio “non ho nulla contro, basta che non ostentino”. Affermazione che in Italia gode ancora di una certa fortuna, anche dentro la nostra stessa comunità. Ciò, tuttavia, non ne garantisce la bontà argomentativa dato che dentro lo stesso popolo arcobaleno godono – ahinoi – di altrettanta fortuna affermazioni razziste, misogine e omofobiche.
Non riconoscere al termine “gay” dignità verbale, perché magari si vede in quella parola una condizione di svantaggio sembra rientrare in quest’ultima dimensione: l’omofobia. Non voler usare parole comuni, quali “marito” per riconoscere il suo compagno, anche. Le parole descrivono e creano la realtà. Negare alla nostra realtà alcune parole per descriverla è un atto di violenza verbale. Questa negazione, infatti, ci vieta di poterci percepire e raccontare così come il resto del mondo: come coniugi, come famiglie, come persone anche Lgbt. Ed è contro questo principio che in tutto il mondo la nostra comunità e il movimento da essa espresso lottano da quasi cinquanta anni. Non so se ha mai sentito parlare di Stonewall, ma mi creda: è una storia affascinate. Epica, a modo suo.
Per ottenere questo diritto a potersi dire gay e di utilizzare le stesse parole di coloro che per secoli sono stati percepiti come l’unica normalità ammessa, sono morte molte persone: alcune per il loro impegno politico (pensiamo ad Harvey Milk), altre per la loro semplice identità (conosce la storia di Matthew Shepard?). Si è passati attraverso violenze, pubbliche e private: dai campi di sterminio vecchi e nuovi (le dice niente la Cecenia?), alle pressioni psicologiche in casa o sul posto di lavoro. Non riconoscere quella parola, gay, significa insultare le persone che hanno lottato nei loro rispettivi paesi per ottenere un mondo migliore rispetto a quello in cui lei, signor Ozpetek, è nato. Lo dica anche al suo amico Stefano Gabbana, visto che c’è.
Per fare in modo che si possa dire la parola “gay” senza essere insultati, derisi, picchiati, imprigionati e torturati, assistiamo al coraggio e al lavoro durissimo di singole persone e intere associazioni. A noi occidentali oggi sembra normale, ma in paesi come Russia, Uganda e molti altri quell'”essere gay”, prima ancora che “dirsi” tali, costa la libertà e la vita. La parola “gay”, applicata all’identità di un individuo, si trasforma in condanna di morte, ad esempio, in diverse nazioni musulmane e nel famigerato Califfato, dominato dall’Isis. Negare dignità d’esistenza a quel termine significa insultare tutte quelle persone: sia chi non c’è più perché è stato ucciso, sia chi c’è ancora e meriterebbe appoggio e rispetto. E farlo quando si è in posizione di privilegio, in virtù della propria posizione sociale, non solo è odioso: rischia di essere complice di quelle ingiustizie. Lei, Ozpetek, da che parte sta?
In buona sostanza, se oggi lei – o chi per lei – può snobbare le ragioni di un’identità che è prima di tutto politica, piaccia o meno, lo deve a chi per cinquant’anni almeno ha sacrificato se stesso/a. A chi ha impegnato la propria esistenza affinché, anche in Italia, migliaia di ragazzi gay (e non) andassero liberamente al cinema a vedere film – anche i suoi – in cui l’amore tra persone dello stesso sesso potesse essere raccontato senza censure, aggressioni o divieti. Lo deve a chi ha trasformato l’Italia che l’ha accolta in qualcosa di più vicino a paesi come il Regno Unito e di più lontano alla sua stessa Turchia dove quella parola, se rivendicata ai pride, costa un idrante puntato addosso e le cariche della polizia.
Nessuno ha il dovere all’attivismo e lei ha il diritto a non sentirsi tirato per la giacchetta dall’agone politico, in un senso o nell’altro. Ma ci rifletta un attimo: le sue dichiarazioni assomigliano a quelle di chi, fino a tempi recenti, ha usato i suoi stessi argomenti per negare gli stessi diritti di cui lei usufruisce. Se poi consideriamo che in altri paesi lo star system aiuta la nostra comunità (non importa se registi, cantanti e attori siano gay o meno) capirà da solo quanto fuori dal tempo siano le sue parole. Eppure quell’identità le ha fatto comodo quando, ai tempi in cui non le costava fatica alcuna essere un’icona gay, ha fatto la sua fortuna cinematografica. E le ha fatto comodo, ancora, quando – grazie alle lotte che quell’identità esprime – ha potuto unirsi civilmente col suo compagno.
Abbiamo il diritto di non volerci sentire assimilati a un sistema in cui non ci riconosciamo. Se lei non accetta il matrimonio e la sua terminologia, ha il diritto di chiamare “compagno di vita” il suo compagno. Ma questo diritto a “non essere” passa dal senso di gratitudine verso chi le permette di vivere come meglio le piace. E le piaccia o meno, lei deve tutto questo a migliaia di persone che ogni giorno della loro esistenza non hanno problemi a definirsi serenamente e fieramente gay, lesbiche, trans e tutto il resto delle parole possibili per descrivere la comunità arcobaleno.
Queste persone meritano un rispetto maggiore e, se possibile, il silenzio dovuto quando ci si sente autorizzati a proferire certe corbellerie. Queste ultime faranno tanto bene ai siti dei giornali che le pubblicano, ma offendono sensibilità e vite intere. E questo è inaccettabile.
Cordialmente, un suo fan.
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