La notizia circola in rete già da qualche giorno sui maggiori quotidiani, nazionali e non: Michela Pascali è la prima poliziotta dichiaratamente lesbica al vertice della Cgil Silp, il sindacato dei lavoratori e delle lavoratrici nella Polizia di Stato in Italia. Anche se il termine lesbica andrebbe messo tra virgolette, perché a leggere gli articoli che le sono stati dedicati, nessuno la definisce come tale, ma si usano termini più generici come “omosessuale” o fuori luogo per il contesto italiano come “gay”. Vediamo di analizzare più da vicino la qualità del linguaggio con cui si è narrata sia questa elezione sia l’identità sessuale dell’agente.
Si legge su Repubblica.it, che Pascali «ha 45 anni ed è la prima poliziotta omosessuale a scalare il vertice di un sindacato delle forze di polizia», si ricostruisce il suo curriculum in Polfer e nella questura di Firenze dove lavora tuttora come tecnica informatica, e si fa accenno alla sua vita privata e alla militanza in Polis Aperta, l’associazione di persone Lgbt nelle forze armate. Il giornale riporta anche una sua dichiarazione: «La segreteria mi ha voluto per la mia attività sindacale, non certo solo e perché sono omosessuale» puntualizzando ancora che «è ovvio che le problematiche Lgbt faranno parte della mia attività, ma non mi occuperò solo di quello, vorrebbe dire svilire il mio ruolo e quello dello stesso sindacato».
Ancora Repubblica.it sottolinea l’aspetto “militante” della sua elezione a leader sindacale: «Spero che la mia elezione possa aiutare tanti colleghi a fare coming out, possa aiutare tutti quelli che vivono un disagio ad uscire fuori senza vergognarsi di quello che sono» afferma ancora Pascali. Il termine “lesbiche” appare nell’articolo, ma più in basso e non riferito direttamente alla poliziotta, quando si ritorna sul caso della sua presenza all’European Lgbt Police Association, in cui volle andare in uniforme, ottenendo però un iniziale rifiuto del ministero dell’Interno. In questo articolo, la segretaria della Cgil Filp si definisce “omosessuale” – come riportato nel titolo – e non “lesbica”.
Il Messaggero nel titolo parla di “poliziotta gay” e riprende essenzialmente quanto già scritto sul quotidiano di Calabresi, ponendo maggiormente l’accento sulla sua vita privata e sulla sua quotidianità lavorativa. «Da vent’anni in Polizia», si legge «Michela ha 45 anni e almeno 2 vite» ovvero, la vita con il marito prima e quella con l’attuale compagna adesso. Qui forse potremmo cominciare a interrogarci sul perché dell’omosessualità come necessaria cesura tra un prima e un dopo – e non come evoluzione dentro una continuità esistenziale – ma non si hanno sufficienti elementi per capire le intenzioni di chi ha scritto il pezzo. Nell’articolo, invece, emergono dure critiche all’attuale governo e a Salvini.
Copie carbone dei due articoli precedenti risultano, pur con le rispettive varianti, anche i pezzi che possiamo leggere in Lettera Donna e ne Il Blitz quotidiano. Entrambi i siti titolano ancora con “poliziotta gay” e riportano sostanzialmente quanto già detto. Stesso identico discorso per il sito dell’Ansa, titolo compreso. È ragionevole pensare che quanto letto fino ad ora sia semplicemente la ripresa di un comunicato stampa con tanto di dichiarazioni, che le redazioni dei rispettivi giornali ha deciso di riprendere. Più inverosimile, invece, la prospettiva di una censura collettiva della parola “lesbica” fatta dai nostri media.
La scelta sulla parola “omosessuale” potrebbe essere semplicemente la predilezione di termine più generico che però nella lingua italiana non esclude affatto la comunità lesbica al suo interno. Si potrebbe pensare – ma siamo nell’ambito delle mere congetture – ad una distanza rispetto ad uno specifico portato politico della parola “lesbica” se con essa intendiamo un certo modo di intendere l’attivismo arcobaleno come strettamente inerente ad alcune questioni del femminismo, radicale o meno. Certo, potrebbe anche essere una forma eufemistica. Per troppo tempo, infatti, “lesbica” è stato identificato come un insulto sebbene non lo sia e sebbene la comunità lesbica lo rivendichi come definizione identitaria (ricordate, tra le altre, la campagna Lesbica non è un insulto? Per tacere delle tante associazioni che riortano il termine nel loro nome).
L’ultimo aspetto su cui occorrerebbe riflettere è il diritto di ognuno e ognuna di noi a definirsi secondo l’etichetta – identitaria, politica, sessuale, ecc – che più ci somiglia o che riteniamo più idonea a rappresentare la nostra complessità. Fermo restando, a livello più generale, che è sempre preferibile una narrazione che identifichi significanti (le parole) con i significati (il senso che portano) nel pieno rispetto delle identità che si ha la pretesa di raccontare, veicolando una rappresentazione quanto più possibile aderente alla realtà dei fatti. Che poi, sarebbe lo scopo primario dell’informazione. In attesa di elementi che possano dare un senso, invece di un altro, alla scelta di un termine, sospenderei il giudizio sulle intenzionalità. Alla fine, Michela Pascali non nasconde il suo orientamento. Il dato certo è questo. Il resto è opinione personale.
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