Omo-misandria, ecco una parola che ci voleva. Ci ho pensato a lungo, ma è il termine che – almeno penso – meglio descrive l’opposizione di un’intera fetta della società verso l’omogenitorialità maschile (che affonda le sue radici nell’omofobia, appunto) e che ha un’ottima sponda e alleate d’acciaio in parte significativa di quel femminismo della differenza – storicamente avverso ai maschi, e oggi misandrico – che è contraria alla gestazione per altri (o Gpa).
Ne deriva che essere contro la Gpa, al punto da auspicarne la criminalizzazione, significa di fatto essere contrari (e, in special modo, contrarie) solo ed esclusivamente alla genitorialità maschile. Un’ulteriore conseguenza di tale approccio alla questione è il rischio di alimentare, perciò, l’omofobia sociale. E se ciò non avviene ad un cosciente livello ideologico – sappiamo a memoria il mantra di chi è disposto a concedere la facoltà di adozione ai gay, pur di allontanare lo spettro della surrogacy – è comunque un inevitabile effetto pratico. Per tutta una serie di ragioni.
Se mai dovesse essere approvato il “reato universale” che punisce le pratiche di surrogazione – e un discorso a parte andrebbe fatto sulla sua effettiva applicabilità – ci troveremmo nella condizione in cui le coppie eterosessuali potrebbero continuare a usufruire della pratica in questione, riuscendo a camuffare e a simulare la gravidanza della donna. Per i gay ciò non sarebbe possibile. Si colpirebbero, dunque, solo i maschi omosessuali. Per fare questo, l’eventuale criminalizzazione rischierebbe di alimentare il “mercato nero” degli uteri – passando dal loro “affitto” al vero e proprio “acquisto” – con conseguente e reale mercificazione delle donne. Il proibizionismo d’altronde favorisce l’abuso, è storicamente comprovato. È questo che vogliono certe “compagne”?
Un ulteriore argomento a favore dell’omo-misandria sta nel periodo storico in cui è si è sviluppata la polemica contro la Gpa, in Italia: la discussione in aula per le unioni civili e per le stepchild adoption. Furono proprio le attiviste di “Se non ora quando – Libere” ad agitare lo spettro del rischio di favorire il cosiddetto “utero in affitto”. Col risultato che le unioni civili sono passate, ma senza il capitolo relativo alle adozioni coparentali anche grazie al loro contributo. Adozioni sulle quali, più in generale, le stesse femministe in questione si dicono poi possibiliste ma in un contesto, come quello attuale, in cui per i gay non è possibile ricorrervi. Sono quindi di fatto contrarie ad una pratica che c’è già – anche laddove la donna è garantita – e favorevoli qualcosa che non esiste (l’adozione) e che poi contribuiscono a ostacolare.
Tale avversione nei confronti del maschio fa parte di una narrazione storicamente stratificata dentro un certo femminismo e che negli anni passati aveva un senso, in una società profondamente patriarcale e sessista che andava messa integralmente in discussione. La domanda da porsi, oggi, è: ha ancora senso vedere nell’uomo il nemico in senso assoluto? Tale visione, per fortuna, tenta di essere superata da approcci più recenti, in cui alla guerra tra sessi si sostituisce una collaborazione tra individui e collettività miste che prescinde il genere di appartenenza. Rimpiazzare uno squilibrio di genere con un altro, in altre parole, non è una strada vincente perché genera asimmetrie e ripercorre gli stessi errori di un sistema che si dice(va) di voler abbattere. Con rischio che alla “rivoluzione” si prediliga il concetto di “sostituzione”.
A tale avversione sembra far riscontro, infine, la sacralità del femmineo, soprattutto in relazione alla maternità. Ma “fare sacro” qualcosa, conduce – letteralmente ed etimologicamente – al sacrificio. Ed è questo un ulteriore rischio per le donne. Essere considerate il tempio di una maternità affibbiata come destino biologico e non come libera scelta. Se il destino (sacro) della donna è quello di essere madre, quanto meno in potenza, non verrebbero a mancare quei presupposti per cui certe scelte individuali (e terrene) possono metterlo in discussione? Penso, ad esempio, all’interruzione della gravidanza. O anche al parto anonimo, nel caso in cui il “sacro femmineo” tende a coincidere anche col “materno”. Insomma, esattamente come per l’omofobia che rischia di far fuori anche soggetti non omosessuali, la misandria culturale di cui si fanno portatrici rischia di far fuori la stessa autodeterminazione femminile. E tutto questo per colpire i maschi gay. Un gran bell’affare, insomma.
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