La notizia del giorno è che il Senato ha bocciato il linguaggio inclusivo. Quest’ultimo avrebbe potuto realizzare, negli atti ufficiali, la parità di genere dentro gli atti ufficiali. La proposta era della senatrice Alessandra Maiorino (M5S) che chiedeva una cosa molto semplice. Il Consiglio di Presidenza doveva stabilire «i criteri generali affinché nella comunicazione istituzionale e nell’attività dell’amministrazione» fosse «assicurato il rispetto della distinzione di genere nel linguaggio attraverso l’adozione di formule e terminologie che prevedano la presenza di ambedue i generi attraverso le relative distinzioni morfologiche, ovvero evitando l’utilizzo di un unico genere nell’identificazione di funzioni e ruoli, nel rispetto del principio della parità tra uomini e donne».
In altre parole, l’adozione del linguaggio inclusivo avrebbe portato questa rivoluzionaria novità: chiamare al femminile le donne, al maschile gli uomini. Si sarebbero usate formule come “senatrice”, “ministra”, “la parlamentare”, “la presidente” e via dicendo. Tutto quanto previsto, per altro, dalla grammatica della lingua italiana. E invece no, il Senato – la stessa camera che ha bocciato il ddl Zan tra scroscianti e volgari applausi – non ha ritenuto opportuno osservare le regole della lingua, attraverso il linguaggio inclusivo. Come fa giustamente notare la professoressa Graziella Priulla, con amara ironia, «il Senato italiano ha autorevolmente stabilito che la frase “il senatore è incinta” è linguisticamente corretta». Poi, però, a voler portare scompiglio e confusione tra i generi saremmo noi persone Lgbt+.
A tuonare contro il voto al Senato, la senatrice Valeria Valente: «Il linguaggio è un fattore fondamentale di parità. Verbalizzare la differenza vuol dire riconoscerla, negarla vuol dire chiedere l’omologazione». Curioso, tuttavia, che l’esponente dem, tra le più convinte oppositrici del concetto di identità di genere nel defunto ddl Zan, si stia accorgendo solo adesso che verbalizzazione e identità viaggiano sullo stesso binario. Perché era, appunto, quello che la comunità Lgbt+ chiedeva con l’inserimento della dicitura incriminata. E a ben vedere, ciò che è successo a Palazzo Madama, non è stato altro che negare l’identità di genere delle parlamentari.
Nessuno, infatti, in Senato disconosce il sesso delle senatrici. A cominciare dal fatto che i bagni sono divisi tra maschi e femmine. E anche l’outfit è diverso, a seconda che a varcare quella porta in Corso Rinascimento sia un uomo o una donna. Il primo rigorosamente in giacca e cravatta, ad esempio. Quindi la distinzione per sesso è largamente riconosciuta. A non essere riconosciuto, con quel voto, è il genere e l’identità in esso racchiusa. Il che, se vogliamo, è un curioso déjà vu. Proprio l’anno scorso, in quell’aula, una frangia molto agguerrita di parlamentari donne e di attiviste che si identificano come “femministe” tuonavano proprio contro il concetto di genere, opponendogli quello di sesso. Solo il sesso definisce una donna, non certo il genere. Anzi, in qualche grottesca bacheca radfem si poteva pure leggere che il concetto di “identità di genere” era pura misoginia. Il Senato, proprio ieri, ha dato ragione a questa impostazione.
L’identità di genere avrebbe cancellato le donne, tuonavano un anno fa – e di questi tempi – alcune “femministe” (e non solo). Peccato che proprio ieri, bocciando l’adozione del linguaggio inclusivo, sia successo esattamente il contrario. A cancellare intere identità di ministre, deputate, parlamentari (donne), sindache, presidenti (sempre donne), sottosegretarie e via discorrendo è stato il mancato riconoscimento del concetto di genere applicato alle professioni. Se Valeria Valente, Valeria Fedeli e altre come loro che storcevano il naso sul ddl Zan verranno sempre riconosciute come persone di sesso femminile, non saranno riconosciute come parlamentari di genere femminile. Un anno fa, ricordiamolo, proprio durante i mesi estivi si consumava questa tragicommedia contro le persone Lgbt+. Un anno dopo, invece, si cancellano le donne, proprio attraverso la negazione del genere. Il dio della vendetta deve essersi alleato con quello dell’ironia. Amara, conveniamo.
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