Quando la poesia incontra la transessualità, porta con sé le condizioni di una piccola grande rivoluzione. È quanto promette l’uscita, prevista a maggio, di Dolore minimo (Interlinea Edizioni, 2018) opera prima di Giovanna Cristina Vivinetto. Un unicum nel panorama poetico italiano contemporaneo perché tenta un compito difficile e delicato: la creazione di una tradizione poetica “transessuale”. Abbiamo deciso di parlarne direttamente con l’autrice.
Hai scelto una forma di comunicazione ritenuta estremamente elitaria: la poesia. Da cosa nasce questo incontro?
È avvenuto durante gli anni del liceo classico, quando masticavo ancora poco di letteratura, figuriamoci di poesia. Come tutti i “classicisti”, mi sono formata soprattutto sullo studio dei greci e dei latini, e poi sui grandi della tradizione nostrana, da Dante a Montale e Quasimodo. La scintilla vera e propria è scoccata al quarto anno, con lo studio e la lettura di Foscolo e Leopardi. Mi colpì, allora, la capacità della poesia di dire molto con poco, l’esattezza del dettato, l’asciuttezza e la musicalità dell’endecasillabo, la precisione di ogni parola scelta, il suo riverbero profondissimo, l’assoluta attualità dei contenuti. La capacità della poesia di dischiudere un universo intero con il sapiente ausilio del verso.
Un microcosmo “a portata di penna”, insomma.
La poesia è una forma contratta del dire che tende all’essenziale, e dunque al nodo più intimo e vero del nostro sentire. Tutto ciò ha per me del miracoloso: mi sono innamorata perdutamente al punto che iniziai a scrivere, non tanto per un qualche bisogno di comunicazione, ma più per esercizio, desiderio d’emulazione e vorace conoscenza. Da allora non ho più abbandonato i versi né ho smesso di scrivere: non so se questo sia stato un bene o meno, ma ciò che posso dire è che, da questo continuo scambio quasi decennale con la poesia e la letteratura, mi sento notevolmente arricchita. E alla poesia devo molto.
Quali sono i temi che tratti nella tua opera?
I temi che affronto nel mio libro riguardano la condizione della transessualità e della disforia di genere: condizione che, lungi dall’essere transitoria (come il termine e i manuali psichiatrici parrebbero suggerire), plasma l’intera esistenza dell’individuo coinvolto, suo malgrado, il suo vissuto, le sue relazioni, il modo di interpretare la realtà e di concepire la cultura e la letteratura. Essendo una donna transgenere, ho avvertito l’esigenza profondissima di parlare di questo sconfinato universo che è la transessualità, non con il mezzo canonico utilizzato a lungo della letteratura trans (ossia il memoir, l’autobiografia).
In modo originale: scegliendo i versi.
L’ho scelta per dimostrare l’assoluta malleabilità del genere poetico nell’esprimere una tematica così complessa e articolata, a tratti ancora oscura ai più. Ho tentato di rendere comunicabile e comprensibile a tutti qualcosa che, all’apparenza, pare assolutamente incomprensibile, fuori da qualsiasi logica. Giovanna Frene, nell’introduzione ai miei testi usciti sul n. 86 della rivista di poesia e critica letteraria Atelier, parla di Dolore minimo come del primo libro in Italia volto ad abbattere il silenzioso muro del tabù culturale rappresentato dalla disforia di genere. Spero di esserne all’altezza.
Quale dei tuoi componimenti ti somiglia di più?
Mi viene da pensare che se i miei componimenti non mi somigliassero, probabilmente non li avrei scritti. C’è molta sincerità nelle mie poesie, un mettersi a nudo che è rivelazione ma anche prodigio: la dimostrazione dell’assoluta “normalità” di una vita transessuale (chi l’avrebbe mai detto?!). Anzi, a mio avviso, almeno per me, l’essere transessuali è un valore aggiunto, un quid positivo che rende più consapevoli sui misteri dell’esistenza, sulla fluidità dei generi e delle idee – d’altronde, in quanti hanno la “fortuna” di vivere due vite in una? È “il dono dell’indovino Tiresia”, come scrivo in una poesia contenuta in “Dolore minimo”.
Ma se dovessi portare con te solo una delle tue poesie?
Se devo proprio scegliere un componimento, mi viene in mente la poesia che inizia «Che nome scegli papà-giudice, / che nome mi dai?», a cui sono molto legata. È una poesia che parla di rinascita nel modo più “naturale” e, purtroppo, ovvio per noi trans, quella cioè giuridica, che avviene in un’aula di tribunale. Una rinascita dettata da leggi e decisioni altrui, l’unica che ci è stata riservata per poter essere noi stesse a pieno titolo: «Così credo che il suono primordiale / di ogni nascita sia una voce che chiama / un nome – è il pronunciamento / che ci rende vivi, reali».
Sei entrata in contatto con alcuni dei nomi più importanti del panorama letterario italiano: Franco Buffoni e Dacia Maraini. Come nascono questi incontri?
Nonostante io ancora sia molto giovane, sono stata finora molto fortunata perché ho conosciuto autori e autrici di primo piano nel panorama letterario italiano. Franco Buffoni, Dacia Maraini, ma non solo: anche Alessandro Fo (che ha scritto la bellissima postfazione che chiude Dolore minimo), Valerio Magrelli, Silvia Bre, Biancamaria Frabotta, Mariangela Gualtieri, e molti altri. Tutti questi incontri sono nati soprattutto da uno scambio epistolare, tramite e-mail, in cui proponevo la lettura dei miei versi. Per questo dico di essere stata fortunata, perché avrei potuto ricevere il silenzio o, peggio ancora, una sonora stroncatura. E, invece, tutti questi “grandi” hanno apprezzato molto le mie poesie e con alcuni è nato uno splendido rapporto di amicizia e scambio poetico e culturale.
Buffoni per altro è molto attento alle novità poetiche.
Franco Buffoni mi ha scelta per la sua collana Lyra giovani, fondata e diretta per Interlinea. Mi sostiene moltissimo. Ma, appunto, non è l’unico. Alessandro Fo mi ha supportata sin dall’inizio molto amorevolmente, quasi come un padre, fino a scrivere parole meravigliose su e per il mio libro. E poi c’è Dacia Maraini, che con molta grazia e dolcezza ha accettato di essere la mia “madrina”, scrivendo la prefazione e proponendomi alla rivista Nuovi Argomenti. Per loro ho solo parole di sincera e profonda gratitudine.
Quanto c’è di te e della tua vicenda personale nelle cose che scrivi?
La mia opera è intrisa di “biografia” ma dobbiamo tenere bene a mente che ogni prodotto letterario che si rispetti possiede un certo grado di rielaborazione, artificio, reinterpretazione. Per questo non è un memoir ma nemmeno un libro in cui invento tutto di sana pianta. Si posiziona esattamente nel mezzo, tra la biography e la fiction, tra il dato reale, aderente alla realtà, e quello dell’invenzione, che demolisce la realtà per rifondarla.
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