Abbiamo parlato, proprio ieri, del fenomeno della presenza dei grandi brand commerciali ai pride e della pervasività delle realtà commerciali, grandi o piccole che siano, all’interno del nostro mondo, delle sue lotte e delle sue rivendicazioni. Tastando gli umori della community, ci sembra che sia divisa in due gruppi: quelli che potremmo catalogare come soggetti “entusiasti” e in soggetti “critici” rispetto al fenomeno. Abbiamo deciso, così, di dare la parola a due attivisti. Cominciamo, da oggi, con la visione più critica, attraverso le idee di Enrico Gullo, dottorando in Storia dell’arte e militante queer.
Mi capita di sentire spesso che la pubblicità abbia giocato un ruolo significativo, per non dire maggiore dell’attivismo, nell’emancipazione Lgbtqia+. Da un certo punto di vista potrebbe essere condivisibile: la pubblicità e lo schieramento di aziende private a favore dei diritti Lgbtqia+ ha avuto la capacità di plasmare l’immaginario e di rafforzare nel discorso pubblico l’idea della legittimità di alcuni dei temi ormai classici dei movimenti di liberazione omosessuale. D’altronde avere in mano il potere economico dà una grossa mano alla costruzione di un’egemonia culturale. Penso però che vadano messi a tema alcuni problemi: primo fra tutti quello relativo a quale “agenda Lgbtqia+” viene portata avanti dalle aziende.
Quello che si osserva è che a vendere (direi piuttosto letteralmente: si tratta pur sempre di pubblicità) è soprattutto il tema della coppia matrimoniale, della famiglia tradizionale “riformata” nell’omogenitorialità (coppie omosessuali, ma pur sempre coppie; nei paesi in cui questi processi sono più avanzati, coppie con figli). È un fatto relativamente recente, probabilmente da spiegarsi anche in base al ciclo politico reazionario che si sta dando soprattutto nell’Occidente globale: terminata l’età della coolness della trasgressione, anche sulla spinta delle richieste delle dirigenze dei movimenti Lgbt più generalisti, si è iniziata a preferire una rappresentazione familiare e rassicurante dell’omosessualità (nel cinema come nella pubblicità).
A presiedere, prima come oggi, continua a essere il discorso sull’amore, uno dei più potenti creatori di immaginario della modernità: non sorprende quindi che la Coca Cola lanci una lattina con la scritta “love” con un dettaglio arcobaleno. Due segni (uno verbale e uno visivo) immediatamente riconoscibili come familiari e non questionabili. Alla cacciata di tutta la parte più scomoda e più difficile da far passare della liberazione sessuale, che almeno sui temi delle malattie a trasmissione sessuale e degli spazi di socialità Lgbtqia+ ha però a sua volta i propri campi di commercializzazione che rispondono ad altre regole, vincoli e delimitazioni di rappresentazione, corrisponde però la costruzione di un immaginario specifico che crea anche un modello di comportamento.
Naturalmente il mercato di Coca Cola è ben più largo di quello di Pornhub e di Durex, e mi aspetto e vedo che i modelli comportamentali proposto dalle aziende “non di settore” abbiano quindi una capacità di normazione più forte, che va per inciso a tutto vantaggio di un autodisciplinamento che serve sia agli Stati per meglio gestire la popolazione, sia alle aziende per meglio controllare il rapporto tra tempi di vita e tempi di lavoro. Questo va naturalmente a scapito della reinvenzione dei modelli familiari non matrimoniali e non di coppia, per esempio, ma basati su condivisioni affettive multiple.
Dall’altro lato va riconosciuto un altro fatto: le aziende non fanno profitti solo “vendendo il brand Lgbtqia+” sui prodotti materiali che piazzano sul mercato, ma anche vendendo prodotti finanziari mirati. È possibile ultimamente, infatti, acquistare pacchetti di azioni di società friendly verso le comunità Lgbtqia+ attraverso dispositivi come l’LGBT Equality Index, l’indice finanziario del Credit Suisse (per approfondire si veda Federico Chicchi, Anna Simone, La società della prestazione) che quota in borsa la tolleranza delle aziende verso le differenze di genere e di orientamento sessuale (anche dei loro e delle loro lavoratrici, a loro volta “amministrati” attraverso il diversity management). Il problema di tutto questo è che non solo interi pezzi di rivendicazione Lgbtqia+ vengono lasciati fuori, ma non c’è alcuna redistribuzione alle comunità Lgbtqia+ che di fatto li generano (o sulla cui pelle vengono generati) dei profitti ottenuti attraverso il mercato ordinario e attraverso il mercato finanziario.
Come d’altro canto nessuno di questi profitti viene distribuito per ridurre le disuguaglianze globali: resta sempre il capitalismo, bellezza! Credo che un protagonismo politico delle comunità Lgbtqia+ attraverso la presa di parola non delegata a soggetti privati o esterni alle comunità possa essere un buon modo per contrastare questo fenomeno, dove per “protagonismo politico” si intende non solo la capacità di parlare per sé e a partire dalle proprie esigenze concrete, ma anche la capacità di fare emergere queste esigenze attraverso la relazione e il dialogo collettivo, la creazione di reti di persone che discutono e che si aiutano anche economicamente, e che si organizzano per la formulazione di un programma di rivendicazioni da attuare contemporaneamente attraverso l’organizzazione stessa e attraverso le battaglie per i diritti riconosciuti dagli Stati, che somiglino il più possibile alle relazioni e alle esigenze delle comunità Lgbtqia+.
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