Nell’immaginario collettivo la figura dello psicologo viene vissuta spesso come uno schermo bianco, neutrale e asettico. È un retaggio di antiche teorie psicoanalitiche (superate oggi dalla psicoanalisi stessa), che in qualche modo hanno permeato il sentire comune.
Nella visione contemporanea della psicologia, invece, è ormai evidente che la relazione fra terapeuta e paziente è centrale per la buona riuscita della terapia. È vero, anche, che le dimensioni personali (cognitive ed emotive) dello psicologo entrano necessariamente a far parte di quello che è a tutti gli effetti un incontro fra due persone, anche se con ruoli e professionalità diverse.
In questo senso, compito fondamentale del terapeuta diventa monitorare continuamente le proprie emozioni, attraverso una pratica costante di autoconsapevolezza circa i propri vissuti.
Questa riflessione diventa ancora più rilevante quando parliamo di tematiche LGBT+, spesso accompagnate da pregiudizi e sentimenti non sempre facili da comprendere e rendere coscienti. Pregiudizi e sentimenti, infatti, si sedimentano durante gli anni della crescita in un contesto socio-culturale come il nostro, che continuamente conferma alcune idee erronee diffuse.
Il terapeuta che incontra pazienti LGBT+ deve necessariamente confrontarsi con una serie di stereotipi appresi nel proprio contesto socio-culturale. Queste convinzioni vengono spesso alimentate da teorie scientifiche su omosessualità e transessualità apprese durante l’Università, non sempre aggiornate e ancora valide. Lo dimostrano, ad esempio, i continui cambiamenti avvenuti nei manuali diagnostici utilizzati dagli psicoterapeuti stessi.
Il rischio quindi che alcuni pregiudizi entrino forzatamente nella stanza di terapia è alto, se questi non vengono analizzati a fondo dal terapeuta stesso, e al contrario vengono utilizzati come se fossero supportati da spiegazioni scientifiche condivise.
“L’omosessualità maschile è il risultato di un rapporto eccessivamente intimo con la madre in assenza di una identificazione col padre”.
“La bisessualità rappresenta solitamente solo una fase transitoria, una difesa contro la paura di definirsi apertamente come gay o lesbica.”
“La madre è colei che partorisce. Non è possibile applicare il costrutto psicologico di madre anche all’altra donna di una coppia lesbica. Non è assimilabile a quel tipo di vissuto”.
“Le persone gay o lesbiche hanno solitamente relazioni più instabili e meno durature, perché incapaci di investire in una relazione monogama”.
“Il paziente affermava di sentirsi donna, ma rimaneva invariata la sua attrazione per le donne, il che dimostrava una certa sua confusione”.
Questi sono solo alcuni esempi di preconcetti ammantati da spiegazioni scientifiche che rischiano di minare alla base il percorso di terapia di una persona LGBT+, escludendo dalla relazione fra psicologo e paziente quella apertura e curiosità verso l’altro, sola possibile fonte di reale conoscenza.
Il vero problema attuale, almeno in Italia, è la mancanza nel percorso di formazione del futuro psicoterapeuta di un approfondimento delle tematiche LGBT+. Si tratta, infatti, di argomenti quasi per nulla affrontati negli anni universitari (se non appunto attraverso lo studio di alcune teorie storiche) e solo raramente nelle scuole di specializzazione. Questo grave problema necessita di una soluzione strutturale. In attesa che ciò avvenga, però, il paziente LGBT+ deve scegliere con cura il professionista al quale rivolgersi.
Infatti se lo psicologo contattato manca di una formazione specifica, nel migliore dei casi può essere consapevole della sua scarsa preparazione in materia e chiedere supporto o in alternativa inviare il paziente ad altro professionista. Ma nella peggiore delle situazioni rischia di ignorare i propri stessi pregiudizi e produrre un danno inconsapevole nel vissuto del paziente.
Per questi motivi è sempre preferibile, ove possibile, contattare un’associazione LGBT+ presente nel territorio che potrebbe avere già dei nomi di professionisti esperti a cui rivolgersi. In alternativa è sempre lecito durante la prima seduta chiedere informazioni in tal senso alla persona alla quale ci siamo rivolti per farci aiutare, senza timori o imbarazzi, ricordandoci che la psicoterapia deve essere uno spazio in cui sentirci a nostro agio.
(Alessandro Loforte è psicologo – psicoterapeuta ed esercita la libera professione da oltre dieci anni a Bologna presso lo studio “Il Melograno“)
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