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Cosa ci insegna il caso di Rayem, il bimbo preso a calci da un padre razzista

Siamo stati tutti e tutte colpite dal caso di Rayem, il bambino di origine nordafricana preso a calci da un italianissimo padre di famiglia. Colpevole di essersi avvicinato troppo al passeggino in cui stava suo figlio. «Per allontanare l'”intruso”» si legge su Repubblica.it, questo energumeno «ha pensato bene di colpirlo con un calcio all’addome, infischiandosene della tenerissima età dell'”avversario”». La vittima di questo episodio di razzismo e di violenza, tanto più assurda in quanto totalmente gratuita, ha solo tre anni. La sua famiglia vive nel nostro paese da venti. Il padre, in una intervista, ha detto che il piccolo ha ancora dolori allo stomaco e, purtroppo, un trauma psicologico che lo ha portato a non dormire per tre notti. Anche gli altri fratelli sono molto turbati, a causa della vicenda. Vicenda che ci dice molto sul clima che si respira, tuttora, in Italia. E non solo.

La retorica del benessere del bambino in chiave anti-Lgbt

Il ricorso alla salvaguardia dell’infanzia è argomento di prima scelta nel linguaggio politico, di un certo colore. Quando ci fu la discussione sulle unioni civili, una delle ragioni per cui osteggiare la stepchild adoption c’era proprio quella del diritto del bambino di vivere secondo modelli ottimali. Al di là di presunte liberalizzazioni del mercato di embrioni e fantasiose aperture all’“utero in affitto”, va da sé. Dove questi modelli corrispondevano all’idea della famiglia tradizionale, con padre e madre al seguito. Tutta la retorica contro le adozioni per le persone Lgbt, l’accesso delle donne lesbiche alla procreazione assistita e agli uomini gay alla gestazione per altri gioca proprio su questo assunto: si deve salvaguardare il bambino nel suo diritto di vivere in una “famiglia normale”, dove per normale si intende – appunto – la famiglia eterosessuale. Eterosessualità vista e proposta come garanzia di serenità, di crescita sana, di modelli edificanti.

“Parlateci di Bibbiano”

Uno striscione su Bibbiano contro il Pd

La retorica sulla salvaguardia dei bambini è tornata prepotentemente – e in chiave anti-gay – con la polemica sui fatti di Bibbiano. Per un solo affido a una coppia lesbica, affido su cui si nutrono sospetti e che è al centro (insieme ad altri, relativi a coppie eterosessuali) di un’indagine giudiziaria, si è animata una vera e propria macchina del fango contro il Partito democratico (soggetto del tutto estraneo agli illeciti riguardanti gli affidi) e contro la comunità Lgbt+: aver affidato una bambina a due donne è la prova provata che l’omogenitorialità è sempre abuso, contro i più piccoli e i più indifesi.

Nessun hashtag per Rayem

La retorica del bambino da salvare dalle grinfie del mondo arcobaleno torna anche con la polemica sul “gender”. Di questo argomento molto si è discusso, in queste pagine e altrove, per cui non vi tornerò sopra. Faccio solo notare che tutti gli attori politici che hanno a cuore le sorti dei bambini possono essere collocati tra le file dei cattodem e dei cattolici conservatori, della destra radicale e/o fascista, del sovranismo (leghista e non). Non mi risulta, al momento, che queste stesse realtà si stiano stracciando le vesti per l’aggressione al piccolo Rayem. Non mi pare esistano hashtag, interrogazioni parlamentari, sdegno a buon mercato e tweet con tanto di immagini ritoccate che chiedano giustizia per questo abuso. Abuso che non tocca solo la natura di “migrante” del bambino aggredito. Tocca, in primo luogo, proprio la dimensione di un’infanzia abusata da un mondo adulto animato dall’odio.

Lo sfogo di una mamma arcobaleno

Cartelli anti-gender al family day

Alessia Crocini, attivista di punta di Famiglie Arcobaleno, ha scritto uno stato sul suo profilo Facebook. Lì parla del percorso che l’ha portata a diventare madre. Parla del momento del concepimento e della nascita di suo figlio: «C’ero durante la lunga notte di travaglio, c’ero quando si è deciso di fare il cesareo e sono stata la prima a prenderlo in braccio appena uscito dalla pancia di Chiara». Parla di come lo sta crescendo: «Ancora adesso che pesa 17 chili quando si addormenta in macchina di sera mi faccio 4 piani a piedi portandolo in braccio per non svegliarlo». E si arrabbia con lo Stato italiano. Per cui «io non sono sua madre e lui non è mio figlio» mentre colui «che ha preso a calci un bambino di tre anni perché si è avvicinato alla carrozzina di suo figlio neonato per fargli una carezza, non verrà tolta la responsabilità genitoriale».

Cosa ci insegna il caso di Rayem

Ci insegna tante cose, insomma, questo episodio nerissimo di cronaca altrettanto nera. Ci dice, innanzi tutto, che è falsa, vuota e ipocrita la retorica di chi si ricorda dei diritti dei bambini e delle bambine solo quando quella memoria serve per demonizzare le persone Lgbt+. Oltre che ignorante, visto che si fa – spesso volutamente – confusione tra omogenitorialità e violenza. E ci dice, ancora, che l’eterosessualità dei genitori non è affatto garanzia di bontà educativa. Essere padre e madre non ci mette al riparo da nulla. Chiedetelo a Rayem, alla sua paura, al dolore che prova all’addome. E ci ricorda, purtroppo e drammaticamente, mentre esultiamo per la fine del governo giallo-verde, che la cultura che lo ha prodotto non si è dissolta con la crisi parlamentare. Resta lì, intatta, a invischiare e intorbidare i pensieri di larghi settori della società.

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