Riceviamo e pubblichiamo questa interessante riflessione del giurista Angelo Schillaci sul rapporto tra sinistra e diritti, partendo dal ri-acceso dibattito sulla gestazione per altri.
Buona lettura.
Il bel pezzo di Dario Accolla e Caterina Coppola, pubblicato da Gaypost.it offre l’occasione – rara, di questi tempi – di riflettere sul rapporto tra sinistra e diritti in una prospettiva storica.
La loro riflessione prende spunto dalla posizione espressa dalla neonata coalizione di governo spagnola in relazione alla gestazione per altri. La gpa è un tema tra i più complessi nel dibattito contemporaneo sui diritti, che chiama in causa diverse interpretazioni dell’autodeterminazione personale. Soprattutto ci sono in ballo il rapporto tra libertà di scelta, responsabilità verso l’altro e tutela della dignità di tutti i soggetti coinvolti, a partire dalla donna gestante e dal nato. Un tema ben rappresentativo delle tensioni e dei conflitti che investono il rapporto tra libertà ed eguaglianza, in un tempo nel quale l’evoluzione della tecnica ci impone di riflettere sul confine fragile e delicato tra ciò che è tecnicamente possibile e ciò che è eticamente accettabile.
Di fronte alla netta presa di posizione della sinistra spagnola, il dibattito italiano si è ulteriormente polarizzato. Siamo di nuovo allo scontro tra favorevoli al divieto assoluto, fino alla messa al bando universale, e chi propone un’apertura più o meno cauta. Posizioni che ricordano la necessità di una discussione sul tema, a partire dalla conoscenza di esso e dall’ascolto delle storie dei soggetti coinvolti.
In particolare, è stato rilanciato un appello ai segretari dei partiti di maggioranza riguardante la messa al bando universale della gestazione per altri. Anche il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, ha risposto, ribadendo almeno tre punti fondamentali: 1) la GPA, in Italia, è già vietata; 2) massima attenzione va data alla tutela dei bambini nati da GPA all’estero (sui quali l’appello tace); 3) verrà avviata, nelle opportune sedi interne al partito (a partire, è lecito augurarselo, dalla Conferenza delle donne) una riflessione collegiale.
Una posizione equilibrata e attenta alle diverse posizioni in campo. E consapevole, soprattutto, della necessità di riflettere assieme, confrontandosi.
Da questa vicenda vorrei partire anche io, lasciando da parte il tema specifico e riflettendo piuttosto su ciò che ci può insegnare sul rapporto tra sinistra e diritti. Quanto dichiarato da Zingaretti, infatti, esprime bene il metodo con il quale le culture politiche della sinistra hanno affrontato le questioni legate ai diritti.
Un aspetto distintivo del rapporto tra sinistra e diritti è nella consapevolezza che l’allargamento di spazi di libertà non può essere separato dalla critica delle condizioni materiali in cui quella libertà si esercita. Pensare i diritti “da sinistra” significa essere consapevoli del complesso equilibrio tra libertà ed eguaglianza, tra individualità e contesti collettivi, tra libertà civile e libertà politica.
Dalla “Questione ebraica” di Karl Marx (almeno) fino alla contemporanea critica delle distorsioni del neoliberismo, la sinistra si è fatta carico del rapporto tra diritti e concrete condizioni di esistenza. Ne resta traccia in episodi, libri, canzoni: basti pensare, fin dal titolo, alla celebre “Bread and roses”.
Non basta, insomma, proclamare un diritto, né assicurarne il riconoscimento formale, se non si ragiona in termini più ampi sia sul rapporto tra quel diritto e i diritti delle altre e degli altri, sia sulla possibilità di esercitarlo concretamente.
Ma ciò non può voler dire mettere in secondo piano una dimensione rispetto dell’altra. Significa, piuttosto, assumere su di sé la fatica della storia e attraversare i conflitti. Significa riconoscere e perseguire la stretta connessione tra diritti civili e diritti sociali che ancora troppo spesso vengono descritti, anche a sinistra, come grandezze contrapposte. E significa essere vigili verso lo straripamento del mercato e della tecnica in aree dell’esistenza fin qui caratterizzate da logiche di gratuità e solidarietà.
Ancora, pensare ai diritti a partire dalla concretezza delle esperienze induce ad un sano sospetto verso i divieti. E, più in generale, impedisce di ragionare sulla vita a partire da posizioni di carattere assoluto o dogmatico. Allo stesso tempo, è di nuovo questa vocazione alla concretezza a imporre di mantenere gli occhi aperti sull’esigenza di protezione dei soggetti vulnerabili, in un’ottica non paternalistica, di valorizzazione delle capacità. Protezione non solo di fronte ai poteri pubblici o privati, ma anche di fronte all’esercizio di libertà e diritti da parte di altre e altri.
Il passaggio decisivo e l’orizzonte di senso, almeno per la sinistra italiana, resta la Costituzione con il suo progetto di emancipazione e liberazione della persona. L’eguaglianza, in questo progetto, è definita non a caso come pari dignità sociale, dunque come eguale diritto di esprimere (in concreto) la propria differenza. Una formula che, più di altre, descrive l’equilibrio tra libertà, eguaglianza, dignità, solidarietà e giustizia; e che consente di riconoscere progressivamente nuove dimensioni di autodeterminazione, relazioni, esperienza, allargando gli spazi della presenza civile.
Ed è proprio a partire dalla persona – tutta intera – che la sinistra deve ancora articolare una visione del mondo contemporaneo e delle sue sfide. Non sono sfide da poco: dall’uso difensivo delle identità, alle chiusure individualistiche, alla sfida lanciata da populismi e sovranismi, contro la solidarietà verso le differenze. A tutto questo si resiste riscoprendo la vocazione alla concretezza e la possibilità di costruire il mondo comune prendendo in carico sofferenze e domande di riconoscimento, diseguaglianze materiali e discriminazioni personali.
Non sono slogan senza significato.
Partire dalla persona significa mettere a frutto alcuni degli insegnamenti classici del pensiero che ha ispirato l’azione politica della sinistra. E bisogna farlo evitando il rischio di ripetere alcuni errori del passato. Significa mettere al centro l’ascolto rispettoso delle storie, la pratica dei conflitti, l’urgenza del dialogo e del confronto. Significa evitare reticenze, o peggio ancora il comodo rifugio negli assoluti, inseguendo con il furore dell’ideologia posizioni cieche rispetto ai concreti problemi di vita. E significa, al tempo stesso, inserire quelle storie – e la domanda di giustizia che esprimono – in una lettura critica dell’esistente e delle condizioni strutturali in cui esse sono immerse e che producono diseguaglianze e ingiustizia.
La direzione giusta, dunque, è quella segnata dalla storia e dalla più volte richiamata vocazione alla concretezza, nella consapevolezza della molteplicità di visioni del mondo e della vita che, anche a sinistra, chiedono di essere composte in equilibrio.
Esitazioni ed errori non sono mancati: Dario e Caterina lo ricostruiscono benissimo.
Nulla di cui essere scandalizzati, però. Le posizioni espresse nel tempo dalla sinistra sui diritti non sono maturate nel vuoto, ma entro processi storico-culturali ben definiti. Di questi, la sinistra ha assorbito convinzioni diffuse, talvolta anche pregiudizi, e non sempre è stata capace di scalfirli o anche solo di resistere a essi. E d’altro canto, le lotte per i diritti civili sono intrise di storia e di storie, di cultura ed esperienze vissute. E di politica, com’è ovvio, con le sue necessità, le sue esigenze, il suo specifico linguaggio, il suo sguardo rivolto in avanti e i suoi piedi saldamente affondati nel terreno del presente.
Nella storia la sinistra è ancora immersa, con tutte le sue contraddizioni e le sue difficoltà. Ma la storia si deve attraversare con il coraggio di cambiarla. E con la capacità di conciliare la radicalità dei principi – la precedenza della persona, l’autodeterminazione dei corpi e delle vite, la solidarietà, l’eguaglianza (insieme!) – con la consapevolezza della complessità del cammino. Senza permettere che quella complessità pregiudichi la coerenza delle posizioni.
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