Abbiamo visto Stranger Things 4, sia perché ne siamo innamorati, sia perché dopo le promesse “rainbow” della terza stagione dovevamo capire la piega che avrebbe preso la narrazione, riguardo la questione Lgbt+. E cosa dire, le aspettative sono state ampiamente confermate. Pur essendo un prodotto, infatti, in cui lo story telling arcobaleno è sullo sfondo, concentrandosi sull’aspetto più horror e fantascientifico, la serie in onda su Netflix ci regala due momenti molto importanti. Vediamoli insieme. Ma attenzione: se non hai ancora visto l’ultima stagione, non proseguire nella lettura. L’articolo contiene spoiler.
Cresce, e pure bene, il personaggio di Robin (interpretato da Maya Hawke). La ragazza, che ha già fatto il suo coming out durante la terza stagione, adesso vuole esplorare la sua sessualità e mettersi alla prova nel campo dei sentimenti. E si innamora di Vickie (Amybeth McNulty), con cui condivide la passione della musica – entrambe sono nella banda della scuola – sebbene ha ancora numerosi problemi a dichiararsi. Siamo pur sempre negli anni ’80 e, come dice la ragazza al suo amico Steve, ci vuole poco a finire nella schiera degli emarginati. Robin cresce però non solo come presenza Lgbt+, ma anche come personaggio a tutto tondo.
Risolutiva durante la visita al manicomio criminale, scena in cui Maya Hawke dà prova di grande abilità recitativa. E di grande umanità quando confida al suo amico che ha paura di morire, durante l’ennesima missione nel “sottosopra”. Fino ad arrivare alle scene finali, in cui recupera il suo rapporto con Vickie, che si era apparentemente incrinato perché quest’ultima si era fidanzata con un ragazzo. Ennesimo “amo” che aggancia il pubblico e che lo pone di fronte alla domanda: come andrà a finire la storia d’amore tra due ragazze, negli USA omofobi degli anni ’80? Non resta che attendere l’ultima stagione.
Ma non è solo Robin a regalarci uno spaccato arcobaleno dentro Stranger Things. Evolve, e nella direzione che si era prevista già dalla terza stagione, anche il personaggio di Will (nei cui panni troviamo Noah Schnapp). Che è più silenzioso e più tormentato. Ma non riesce a non trasmetterci innanzi tutto il dissidio interiore tipico di quell’età, in cui si comprende di non essere come tutti gli altri. Si è innamorato del suo migliore amico, Will. E sublima nella storia d’amore tra la “sorella” adottiva Undici e Mike un sentimento che non può essere vissuto altrimenti.
Eppure, anche con Will, gli sceneggiatori di Stranger Things non si limitano a restituire un personaggio vittima di un suo destino. C’è sempre una speranza e questa arriva dalle parole del fratello maggiore, Jonathan (Charlie Heaton), che si accorge di tutto. E non si possono non amare le sue parole, nel suo discorso nell’ultima puntata, in cui gli fa comprendere che lui ha capito. E che per lui non cambia niente. «Qualsiasi cosa accadrà, io ci sarò sempre» gli confida. E glielo dice, dichiarando a chiare lettere che accetta il fratello minore per quel che è. Una splendida lezione di “alleanza” tra familiari. E un colpo all’omofobia che è ancora cifra culturale nel nostro paese. E che può fare bene soprattutto in un programma molto amato da adolescenti di ogni età.
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