È tempo di super eroi, lo sappiamo. Non abbiamo ancora superato lo shock per la fine della saga degli Avengers, con tutto quello che ne ha comportato in termini di investimento emotivo. Soffriamo con le serie tv che ci propina la Dc Comics, intrise sì di effetti speciali, ma dalle storie un po’ banali (ad eccezione di prodotti come Titans, dove l’introspezione psicologica dei personaggi va oltre all’azione finalizzata a se stessa). E si arriva alle serie tv con gli eroi disfunzionali. Non esempi da emulare, ma persone come tutti noi, con i loro difetti, le debolezze e le fragilità. The boys appartiene a questo filone. Lo abbiamo visto per voi, ma attenzione: quest’articolo contiene SPOILER.
Avevamo già conosciuto eroi non positivi in The Umbrella Academy. Eppure The boys appare superiore alla creazione di Steve Blackmanper almeno due buoni motivi: la robustezza della trama, più strutturata rispetto a quella del telefilm andato su Netflix, e la solidità dei personaggi rappresentati. Il cinismo, il doppiogiochismo, il fallimento esistenziale sono denominatori comuni di entrambe le serie. Con una differenza apparente: nel prodotto andato in onda su Amazon Prime, questi sono ingredienti di sfondo di una feroce critica sociale nei confronti della società occidentale. Il politicamente scorretto che troviamo in The boys punta il dito sulle ipocrisie americane. E diventano, inevitabilmente, specchio delle ipocrisie del nostro mondo. A cominciare da quelle insite nella narrazione sovranista, che dell’occidente è male recente.
Lo vediamo, innanzi tutto, nel personaggio del Patriota, (super) uomo della provvidenza che si sente investito di una missione superiore: «Questa occasione è irripetibile, le persone hanno paura, non hanno fiducia in Washington né in quella élite e odiano gli stranieri. Vogliono solo un po’ di John Waine e di giustizia da far west. Ed è quello che faccio io» gli sentiamo dire nel quinto episodio, cuore narrativo e ideologico dell’intera serie. E non è l’unico riferimento al “trumpismo” imperante e alla società che lo ha prodotto. Si pensi al personaggio di Ezechiele, super eroe e predicatore al tempo stesso, che vuole guarire i gay con la preghiera… vi ricorda qualcuno? E come nelle migliori tradizioni, si scoprirà che questo moralizzatore è omosessuale a sua volta.
La commistione tra fanatismo religioso e narrazione politica fa da sfondo all’intera serie. Su questa, si innestano elementi che ci fanno pensare a un certo modo di far politica, tipico anche delle latitudini europee. Pensiamo al disprezzo nei confronti degli organi democratici da parte del super eroe di turno – o dovremmo dire “capitano”? – che invoca per sé “pieni poteri”, volendo guidare addirittura l’esercito americano: è, di nuovo, il caso di Patriota, personaggio che si configura puntata dopo puntata come il vero super cattivo del telefilm. Il tutto di fronte a masse adoranti a cui far credere che la propria è una missione divina, con tanto di crocifissi sullo sfondo. E chissà se è previsto un cameo per il cuore immacolato di Maria…
L’antidoto a tutto ciò sembra risiedere nella psicologia, ben indagata, dei personaggi femminili. Pensiamo a Queen Maeve, che scopriamo essere lesbica ad un certo punto della serie. Sorta di Wonder Woman dotata di incredibile opportunismo, ha sacrificato la sua natura e i suoi sentimenti per la gloria e la celebrità. Ma sente che qualcosa le manca. Ed è lei, nonostante le sue scelte (o forse proprio per queste) a farsi venire qualche scrupolo di coscienza e a suggerire alla migliore delle super eroine presenti nel gruppo dei “sette” ad essere se stessa: stiamo parlando di Starlight.
È proprio Starlight, durante un raduno di fanatici religiosi che sembra la versione americana di un family day, a fare il seguente discorso: «Quando la Bibbia è stata scritta l’aspettativa di vita era di trent’anni. Insomma non sono molto sicura che si debba prendere alla lettera. C’è anche scritto che è peccato mangiare i gamberi e poi se sei gay oppure se Gandhi andrai all’inferno… ma dai!» concludendo «chiunque afferma di avere le risposte, mente». Ed è lei a denunciare, ancora, le violenze sessuali a cui ha dovuto sottostare, sotto il ricatto di perdere il lavoro e quindi ancora gloria e fama. Un riferimento, nemmeno troppo velato, al caso Weinstein e agli scandali sessuali che hanno travolto lo star system statunitense negli ultimi anni.
In mezzo a tutto questo, troviamo ancora rapporti con famiglie disfunzionali, ipocrisie borghesi e un’ulteriore accusa alla civiltà dei consumi mediatici che con i reality e la creazione ad arte di story telling ed eroi su misura regala alle masse sogni artificiali e speranze di ben scarsa qualità. Nonostante ciò, l’umanità emerge. Ed emerge nel bene e nel male, nella figura dei “ragazzi” – The boys, appunto – una sgangerata gang che proverà a opporsi allo strapotere dei super eroi, ma non tanto in nome di un bene superiore, quanto seguendo il sentimento della vendetta personale: così è per Hugh, il protagonista, che vuole rivalersi della morte della sua fidanzata uccisa per errore da uno dei super eroi. Così è per Billy Butcher, il leader del gruppo, che crede di aver subito un torto proprio da Patriota…
Una serie che va apprezzata per il merito di essere andata oltre la retorica della lotta del bene contro il male, dove buoni e cattivi hanno dimensioni ben delineate. Non è così, per The boys. Nessuno degli eroi negativi è davvero marcio fino in fondo, così come nessun altro tra i “buoni” è libero da scheletri nell’armadio e da un profondo lato oscuro. Tutto si mescola e si riposiziona. Non c’è un destino prestabilito, che mira all’ordine delle cose come ci si aspetterebbe in un fumetto. Ci sono le nostre scelte e le conseguenze che ne derivano. L’aspetto fantascientifico e gli effetti speciali sono lo sfondo di questa grande verità. Il resto è cornice, che racchiude una rappresentazione tra le migliori mai portate sul piccolo schermo. Fosse anche quello di un computer.
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