Le terapie riparative sono interventi atti a “ri-orientare” o “riparare” la persona omosessuale con l’obiettivo di farla diventare eterosessuale o almeno di non farle vivere i comportamenti omo-erotici. Tali tecniche che hanno preso piede in particolare nel mondo statunitense, non mancano nel nostro panorama nazionale. Esse si basano sul principio psicologico di associare un determinato stimolo per favorire un tipo di comportamento.
In tal senso si distinguono due tipi di approcci. Il primo è quello volto a “ri-orientare” la persona attraverso tecniche basate sull’utilizzo di stimoli negativi (come ad esempio l’elettroshock, la suggestione ipnotica o l’iniezione di farmaci inducenti nausea o vomito in associazione a stimoli omo-erotici) in modo da creare avversione per quel tipo di comportamento; altre terapie, invece, sono dette “riparative” in quanto utilizzano tecniche meno invasive (psicoterapia, counseling pastorale, gruppi di preghiera).
Dal momento che l‘omosessualità non è più una patologia, le persone che si occupano di terapie riparative affermano di curare solo le persone che attivamente fanno tale richiesta, ovvero quando una persona sente che il proprio orientamento sessuale compromette la sua vita personale, sociale e lavorativa, creandole difficoltà e disagio (Curti, 2016). Ma se l’orientamento omosessuale è una variante naturale del comportamento sessuale, forse il disagio lamentato non sta tanto “a valle” con il conseguente tentativo di “riparare” qualcosa e decidere di cambiare quel comportamento omo-erotico, quanto “a monte”, ovvero nel capire perché tale vissuto crei un disagio all’individuo. Il lavoro del terapeuta dovrebbe, dunque, basarsi su un uso proprio e corretto (eticamente e deontologicamente) della conoscenza e degli strumenti che ha a disposizione al fine di migliorare il benessere della persona che chiede aiuto, senza porsi nell’ottica giudicante del “riparare” che rinforzerebbe lo stereotipo dell’orientamento omosessuale come “sbagliato” e che, pertanto, va “corretto”.
L’orientamento sessuale, però, nella maggioranza dei casi si definisce prima della pubertà (Quattrini, 2016) mentre secondo altri nei primissimi anni di vita. Dunque, come porsi davanti alla scelta di un genitore che porta dallo psicoterapeuta un figlio minorenne che si percepisce omosessuale con la richiesta di “ripararlo”?
Nel 2007 l’American Psychological Association (APA) ha deciso di muoversi in tal senso e prendere in esame la letteratura scientifica riguardante i tentativi di modificare l’orientamento sessuale, per comprenderne gli effetti e per produrre delle linee guida atte ad aiutare psicologi e psicoterapeuti ad assumere un “approccio terapeutico appropriato” nella pratica clinica. In tal senso, l’APA basa la sua posizione su tre principi: a) l’analisi della letteratura evidenzia che i tentativi di modificare l’orientamento sessuale sono inefficaci e anche dannosi; b) è possibile che l’identità sessuale di una persona non cambi, ma non l’orientamento sessuale in sé; c) alcuni utenti di terapie riparative riportano benefici che non sono attribuibili a fattori specifici dell’intervento riparativo in sé (Lingiardi, 2007). Questo non significa che si possa comandare o controllare il proprio orientamento, anzi. «È dimostrato che le cosiddette “terapie riparative”, che cercano di “convertire” un gay o una lesbica in eterosessuali, non solo non ottengono il risultato cercato, ma causano gravi danni psicologici» (Lingiardi, 2016)
I clinici, dunque, oltre a porsi in modo non-giudicante, dovrebbero tenere sempre presente che non vi sono prove scientifiche che dimostrano la modificabilità dell’orientamento sessuale attraverso la terapia e che tali tentativi non sono né utili né necessari, anzi potrebbero risultare dannosi. Infatti tali terapie potrebbero legittimare e amplificare il rifiuto famigliare, danneggiare l’autostima e precludere l’accesso alla comunità LGBTQI che è, invece, un importante fattore protettivo per i giovani appartenenti alle minoranze sessuali e di genere.
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