Il termine TERF è arrivato, negli ultimi giorni, alla ribalta mediatica dopo essere stato per diverso tempo circoscritto nei sottocodici della comunicazione politica di nicchia. Questa sigla sintetizza la formula inglese “trans exclusionary radical feminists”, ovvero femministe radicali trans-escludenti. Ovvero quelle attiviste che si collocano nel femminismo ma che non riconoscono l’identità di genere delle donne transgender, considerandole uomini che scimmiottano il femminile o che vogliono cancellare le donne invadendo i loro spazi, pubblici e privati.
Fino a pochi giorni fa a parlare di TERF – e a battagliarci contro – erano per lo più appartenenti e militanti delle associazioni transgender, delle associazioni di genitori omosessuali e delle stesse realtà femministe intersezionali. Quindi sono usciti tre importanti articoli: uno scritto da Elena Tebano, su La 27esima ora il 5 maggio, uno di Chiara Zanini su RollingStone (nello stesso giorno) e uno di Antonia Caruso per Domani pubblicato il 7 maggio. Tutti e tre i pezzi descrivono l’universo trans-escludente e riportano il fatto che l’acronimo è considerato un insulto da quelle che si fanno chiamare radfem (radical feminists). Ma è davvero così?
Per rispondere a questa domanda, possiamo rifarci a Judith Butler che in un articolo pubblicato su New Statesman dichiara: «Non sono a conoscenza del fatto che terf sia usato come un insulto» sostiene la filosofa. «Mi chiedo: con quale nome dovrebbero essere chiamate le autoproclamate femministe che vogliono escludere le donne trans dagli spazi femminili? Se favoriscono l’esclusione, perché non chiamarle escludenti? Se si dichiarano appartenenti a quella linea del femminismo radicale che si oppone alla riassegnazione di genere, perché non chiamarle femministe radicali? Il mio unico rimpianto è che c’è stato un movimento di liberazione sessuale radicale che una volta andava sotto il nome di femminismo radicale, ma si è tristemente trasformato in una campagna per patologizzare le persone trans e gender non conforming».
Basterebbe solo questo, dunque, per rimandare alle mittenti l’accusa per cui TERF sarebbe un insulto. Cercherò, invece, di rimanere dentro l’ambito linguistico. Analizzando sia i significati del termine, sia l’ambito d’uso. E partendo dall’assunto che qualsiasi parola ha due dimensioni, chiamate denotazione e connotazione. La prima riporta un termine al suo significato letterale, la seconda arricchisce una parola di sfumature di significato. “Cane”, a livello denotativo, indica il ben noto animale a quattro zampe. Nella frase “recita come un cane” non mi riferisco all’indimenticata Lessie o al commissario Rex, ma sto semplicemente dicendo che quell’attore o quell’attrice recita male. Questo è un esempio di connotazione, ovvero di linguaggio figurato.
TERF, dunque, nel suo aspetto letterale indica quelle femministe che nutrono sentimenti di sospetto o di avversione nei confronti delle donne transgender, non le riconoscono come tali e vogliono escluderle dagli spazi femminili. Siamo al livello di descrizione di un fenomeno. Va da sé che il termine rischia di cristallizzarsi – il suo significato va cioè stabilizzandosi sempre più – assumendo anche una connotazione negativa. Ciò avviene in ragione del fatto che si valuta negativamente l’azione politica che certe attiviste portano avanti. Al centro del nodo problematico non c’è tanto il soggetto – ovvero: la donna e attivista radfem– che si associa a quel termine, quanto le conseguenze di un certo agito politico.
È, a ben vedere, un processo non nuovo nel nostro paese. Di recente, il termine “neoliberale” – che è una categoria politica specifica – è connotato negativamente perché, per i detrattori, gli effetti del neoliberalismo sono nefasti per la società. Ma una connotazione negativa non necessariamente scade nell’insulto vero e proprio. Pensiamo, ancora, al termine “lobby”. Il dizionario della lingua italiana riporta: «Gruppo di persone legate da interessi comuni e in grado di esercitare pressioni sul potere politico per ottenere provvedimenti a proprio favore». Eppure il termine ha oggi una connotazione negativa (persino demoniaca, in certi ambienti, se associata al termine “gay”). Vogliamo parlare, ancora, della parola “comunista” e delle sue connotazioni non positive? Alcune categorie politiche nascono o si caratterizzano con una connotazione negativa: “populista”, “sovranista”, ecc. Possiamo, però, considerare questi termini come insulti?
Un altro elemento da tenere in considerazione è il lessico usato, ovvero la scelta delle parole, nella produzione dell’insulto. Ce ne sono alcune, infatti, che nascono appositamente per ferire. Parole che noi della comunità Lgbt+ conosciamo benissimo. Termini quali “frocio” rimandano subito alla sfera dell’indesiderabilità linguistica. Altre parole non nascono come tali, ma l’uso linguistico le trasforma in insulti veri e propri. Sempre Bazzanella ci ricorda che epiteti presi in prestito dal mondo animale e vegetale si prestano benissimo: “scrofa” e “cagna” riferite a donne e “finocchio” associato ai maschi hanno una forte connotazione denigratoria.
Quest’ultimo potrebbe forse essere il caso di TERF, se usato in circostanze specifiche. Sabina Canobbio ricorda ancora che gli insulti «mirano non alla causa effettiva del dissidio ma direttamente alla persona dell’avversario». Quando si usa la sigla incriminata, su quale polarità ci si concentra? È una critica alla causa del dissidio – ovvero, le conseguenze dell’azione politica delle radfem – o sulla “persona” (le radfem)? Credo che possiamo rientrare in una connotazione sì negativa, in casi specifici (che ricorda certi usi di “neoliberale” o “comunista”), ma che non tocca la persona dell’attivista.
Un terzo elemento da tenere in considerazione è quello dell’intenzione comunicativa. Quando usiamo TERF possiamo limitarci al significato letterale oppure caricare il termine con finalità specifiche, usando ironia o sarcasmo. Procedimenti che, come sappiamo, sono molto presenti nella comunicazione politica. Nei casi più gravi, aggiunte lessicali specifiche possono degradare in insulti gravi (e sempre criticabili): è il caso della parola “lesbica”, ad esempio. Indica la persona omosessuale di sesso femminile, ma può essere usato come insulto. Molto spesso l’intonazione, nell’oralità, conferisce proprio tale dimensione. Aggiungere elementi “scatologici” – ad esempio “di merda” – conferisce valori negativi evidenti. Per valutare il portato denigratorio bisogna, quindi, prendere in considerazione anche questa dimensione.
Concludendo, gli insulti esistono in quanto tali. E molte parole, pur non essendo insulti, possono essere usate in tal modo. TERF, per quanto riguarda gli ambiti d’uso, può prestarsi anche a una connotazione estremamente negativa, ma stiamo parlando di casi molto particolari. Ad oggi, il suo significato primario sembra concentrarsi sulla descrizione di una categoria politica che, come tale, può ingenerare supporto o opposizione. E l’intenzione è un altro ingrediente, nell’intento denigratorio. Resta da chiedersi come mai chi ostenta fieramente i propri sentimenti di negatività nei confronti delle persone transgender abbia poi problemi a riconoscersi in un termine che ne descrive l’azione politica. Comunisti e liberali (neo e vetero) sono fieri di definirsi tali, anche di fronte a usi denigratori. Forse la nobiltà delle rispettive tradizioni ha aiutato. È una questione di identità, insomma. Più o meno solida, a seconda di casi. Fossi nelle attiviste TERF, o radfem che dir si voglia, mi interrogherei su questo.
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